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domenica 8 marzo 2015

Frenesia, confusione interiore, panta rhei a caso e ansia da epiloghi.

Tra cento giorni c'è la maturità. Tra un paio di settimane abbondanti ho l'esame di guida. Domani sera parto. Domani mattina forse sono interrogata in storia (e mi ostino a non cominciare a ripassare nonostante sia praticamente ora di andare a letto). Alcune cose vanno come dovrebbero. Molte cose vanno a puttane.
Guardo la mia vita sfrecciarmi davanti passivamente mentre abbasso gli occhi sul cellulare per controllare se tizio o caio mi hanno risposto su whatsapp, o cerco su Youtube un'altra playlist di canzoni indie, quelle che mi varrebbero il titolo di hipster secondo cert'uni. Rispondo a un paio di messaggi, ascolto due o tre gruppi e siamo già a marzo. Ma non era gennaio un secondo fa? Che se poi mi ci metto e penso a tutte le cose che ho fatto negli ultimi due mesi, ma anche nell'ultimo anno, penso "certo che ne è passato di tempo, ne sono successe di cose, è cambiato proprio tutto da allora". E io sono lì in dormiveglia, tra il sonno arretrato e i mille impegni e i mille amici e le mille cose che riempiono la mia anima di vuoti incolmabili. Sono lì che faccio la gimcana tra le sfide di ogni giorno, e ogni giorno passa più in fretta di quello prima, ogni sfida è più spaventosa all'apparenza e più facile all'atto pratico di quella precedente, tutto scorre via in una danza vorticosa, i giorni si confondono, io non so più chi sono, e mi appresto a uscire dall'adolescenza senza nemmeno rendermene pienamente conto, o senza aver fatto quasi alcunché di adolescenziale. Gioventù buttata al vento.
Faccio fatica a fissare le emozioni, anche se lentamente sto ricominciando a disegnare a matita cose tangibili, dopo almeno un anno o due che facevo solo impietosi pasticci astratti di pennarelli. Di poesie, invece, nemmeno l'ombra. A volte mi sembra di trovare uno spunto, un accenno di ispirazione, ma poi mi rendo conto di non saperlo tradurre a parole con la sintesi e la disinvoltura che vorrei. E faccio fatica a dedicare tempo alla scrittura, anche se ho provato l'inusitata esperienza di scrivere un racconto, e ho già deciso nomi dei personaggi, dei luoghi, storia, finale e tutto, ma stilisticamente è povero e non comunica assolutamente nulla. E quindi neanche svolgendo i concetti in prosa riesco a comunicare in modo efficace.
Dovrei coltivare mille e una cosa per riuscire a sentirmi completa, ma so che sono troppe comunque e quindi non ci provo nemmeno. Il problema è che trascuro anche le cose che dovrei necessariamente fare, e se solo ci penso mi viene male. Dovrei murarmi nella mia stanza da quando finisco di pranzare a quando è ora di andare a letto, con solo i libri di scuola, gli spartiti, i fili del modem tagliati malamente con le cesoie e i paraocchi per assicurarmi di non perdere tempo a guardare in giro. E soprattutto senza cibo. Mi dico "Oh sì, oggi torno a casa, pranzo veloce, per le tre avrò sicuramente finito di lavare i piatti e filo immediatamente in camera a studiare in modo da aver fatto tutto entro ora di cena". Poi va a finire che i piatti li faccio alle quattro, mia madre contemporaneamente arriva, ci scambiamo le solite quattro chiacchiere d'ordinanza, alle quattro e mezza torna mio fratello dalle elementari e ne approfitto per fare merenda tutti insieme, consapevole che le schifezze più libidinose mamma le tirerà fuori in quell'occasione, e magari ci scappa anche un tè (che sistematicamente impiego un'eternità a bere per non bruciarmi la lingua). Quando sono brava, comincio a studiare alle cinque. Inevitabilmente finisco a mezzanotte e non suono nemmeno per evitare lagnanze genitoriali e nottate oltraggiose.
Ma dopo la studiatona overnight di storia e la conseguente interrogazione di domattina non dovrò pensare ai libri per un po'. Me ne vado in gita a Praga e non voglio pensare più non solo ai libri, ma a qualunque altra cosa, eccezion fatta per gli amici più stretti che subisserò di foto e i parenti a cui dovrò prendere i souvenir d'ordinanza. E anche in questo caso, se penso che è la mia ultima gita sento un gran vuoto nel petto. La vita da universitaria vale miliardi di gite per me, ma una parte di me si è fatta la strana idea che quest'ultimo viaggio ufficiosamente definito d'istruzione debba avere necessariamente un che di epico, perfetto e memorabile. In effetti si prefigura come migliore del solito, perché per una volta nelle classi che vengono insieme alla nostra ho alcuni amici con cui so che posso fare balotta. E mi hanno detto tutti che la città è bellissima, e che forse si va a ballare (e se penso che l'ultima volta che ho fatto qualcosa che si avvicinasse all'andare a ballare è stato in gita a Monaco lo scorso anno...). E ho la valigia già praticamente pronta, con forse un paio di aggiunte dell'ultimo minuto da fare, ma vedrò. E la partenza già di per sé sarà suggestiva, ché saliamo in pullman a mezzanotte e passeremo la nottata in viaggio a cercare di dormire seduti. Viaggiare di notte è magico. Ti addormenti in un posto e magari fai un sonno da trip di acidi, per cui la tua mente viaggia lontano, e al risveglio realizzi che hai viaggiato lontano anche col corpo. Sarà stato grazie al sogno? Non è che sei ancora dentro al sogno? Hai strumenti per saperlo dire con certezza? Potresti rimanere nel sogno per sempre. Poi arriva il momento del ritorno e i ricordi dei precedenti quattro o cinque giorni rimangono isolati come una bella bolla di sapone e col passare dei mesi se ne volano via nell'etere. Poi arrivano l'esame di guida, le simulazioni di prove d'esame, le studiate, la tesina, i documenti del 15 maggio, i programmi d'esame al Conservatorio, l'inizio degli esami veri e propri. Non so neanche se uscirò intera da metà delle cose sopra citate.
E non sarà che l'inizio.
E il libro di storia è ancora chiuso. Sarà bene che lo apra subito prima di rischiare davvero di fare le due di notte di nuovo.