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venerdì 24 marzo 2023

Late twenties freaking funk machine. (Decostruzione)

Gli early twenties mi hanno tirata sotto come un treno. Padova pure. Alcuni mesi dopo essermi trasferita qui ho toccato il mio punto più basso a livello personale, di autostima, di impressioni sul mio percorso. Guardavo a tutto ciò che ero in quel momento e a tutti i passi che mi avevano portato lì, e mi sentivo quasi come se ognuna delle tantissime cose che ho intrapreso nella vita non fosse servita a nulla, come se tutte quelle traiettorie convergessero nella singolarità estremamente misera e incapace che ero io in quel momento e si spegnessero nel nulla. Poi, in realtà, più ci rifletto, più concludo che tutto ciò che non andava in me all'epoca aveva delle radici molto più indietro nel tempo. Forse il vivere da sola e il cambio radicale di routine letteralmente da un giorno all'altro hanno fatto venire tutto a galla di colpo. Sì, letteralmente. Ora che ci penso non c'è stato un adattamento, un percorso graduale: semplicemente un giorno ero a casa dei miei, anzi casa mia, a fare la vita da gatto post-lauream, coccolata dalla mia famiglia; e il giorno dopo ero a Padova, in pieno novembre, in una stanza piccola, spoglia e onestamente davvero fredda, a tre ore di distanza da tutto ciò che mi era più familiare. In quel momento della mia vita avevo già superato molte cose che mi avevano dato problemi, pensavo di essere in una condizione molto migliore di tanti altri periodi, pensavo di non avere poi tanto di cui lamentarmi. E invece mi sono ritrovata completamente smarrita.

Ogni tanto penso alla me di allora; penso che adesso saprei cosa dirle, cosa farle fare. Sto ancora facendo i conti con tante abitudini pessime e con tanti meccanismi che non sono ancora riuscita a decostruire. Qualche volta sento una fitta allo stomaco per un pensiero che si origina da qualche complesso indigesto, da qualche imprinting lontano. Ma dura sempre poco. Si tratta di quel genere di pensieri che fino all'inizio dei 20 mi tornavano su ogni qualche settimana, appena non avevo troppo da fare, e mi pervadeva completamente. Adesso è tutto così diverso. La cosa veramente assurda è che da quando ho iniziato terapia non piango quasi più. Ovviamente c'è voluto un po', ma neanche così tanto quanto avrei immaginato. Niente magone gratis. Niente stesse 5 preoccupazioni che si ripresentano a rotazione indipendentemente dal progresso che io possa aver fatto a riguardo. Non penso di esagerare nel dire che lo stare male ciclicamente mi definiva, quasi come se facesse parte della mia personalità. Poi un giorno ho pensato "cavolo, ma io una volta piangevo ogni mese per la stessa cosa".

Punto che secondo me è abbastanza importante, adesso suono di nuovo. Madonna se suono! Sto ancora cercando di capire come suono, perché suono, cosa voglio fare di questa mia abilità. La risposta potrebbe essere anche: niente di concreto, nel senso più orientato alla produttività del termine. Il che mi libererebbe definitivamente da uno dei pochi leitmotif rimasti a provocarmi quelle famose fitte allo stomaco: la paura di non suonare abbastanza bene rispetto al tempo che ho passato a studiare. Di non essere all'altezza di me stessa. L'elettrica è un mondo completamente diverso in cui sono entrata tardissimo. Non so se riuscirò mai a capire quando il mio suono è decente e quando fa schifo, o se avrò mai una pedaliera decente, o se saprò mai sfornare dei lick deliziosi a istinto appena prendo la chitarra in mano. Penso a queste cose, a gente della mia età che le sa fare, e mi sento all'improvviso piccola piccola e piena di paura e inadeguatezza. Poi guardo a me stessa un anno e mezzo fa, che entro in aula per la prima lezione di musica dopo anni che sembravano secoli, sull'orlo delle lacrime, dosando ogni parola e ogni gesto per non scoppiare a piangere così de botto senza senso, perché ricominciare a suonare era ciò che volevo più di ogni cosa e al tempo stesso ciò che più mi mancava il coraggio di fare. Mi mancava il coraggio così tanto che il desiderio di suonare l'avevo represso a forza dopo aver lasciato il conservatorio, sommerso nel diniego più assoluto. Mi ripetevo che se davvero avessi voluto riprendere mi sarei messa lì con costanza, e il fatto che non lo facessi significava semplicemente che non mi meritavo degli stimoli, delle lezioni, uno strumento diverso. E invece non funziona così, perché le cose che hanno un grande significato non si possono fare da soli. E quindi via, ho cominciato con le lezioni fuori dalla mentalità accademica (che comunque mi porto pesantemente sulle spalle e sto cercando di scrollarmela un po' di dosso, con fatica), ho iniziato a frequentare persone che suonavano (probabilmente ciò che avrei dovuto fare molto di più in passato) e quando non mi sento piccola impaurita e inadeguata, mi diverto anche molto. Padova da questo punto di vista è ricca di stimoli. E le persone intorno a me sono contente se ci sono io a suonare con loro.

Il sostegno degli altri è un'altra grande cosa che adesso mi arriva con la prorompenza del sole primaverile, e probabilmente era sempre stata lì, per tutto quel tempo in cui ogni qualche settimana pensavo di essere sola e incapace e piangevo, ma io non la vedevo. Il guscio in cui ero chiusa era esternamente decorato da un'aura di invincibilità che mi rendeva inavvicinabile. Io mi sono sempre sentita vulnerabile. Appena ho iniziato a manifestarlo, le reazioni degli altri intorno a me erano quasi incredule. Mi sono resa conto che, nonostante io tenda a pensarmi come una persona molto estroversa, in realtà non ho mai esternato troppo i miei bisogni emotivi, a meno che non fossi sull'orlo della crisi. Eppure, ultimamente mi rendo conto che tutte le persone che fanno parte della mia vita hanno sempre creduto in me, anche quando io non ero presente o quando non mi sarei neanche sognata di chiedere un incoraggiamento.

Gli early twenties sono passati per me. Quando penso che sono sempre più vicina ai 30 e non ho ancora la minima idea di come si conduca una vita da adulta mi prende un po' male. Del resto, forse, il concetto di cos'è un adulto e come dovrebbe vivere per essere rispettabile non è che l'ennesima aspettativa da decostruire.

sabato 6 agosto 2022

Ragionamenti barcellonesi

Dopo questa settimana ho un po' bisogno di decomprimere. Di non lasciare che le cose continuino a succedere una dopo l'altra e le cose più nuove sovrascrivano subito quelle vecchie, in queste ferie al cardiopalma dove dovrei riposarmi ma in realtà mi ritrovo a girare come una trottola.

Un po' ho anche bisogno di capire cosa succede esattamente alle mie emozioni. Ultimamente faccio fatica a sentirle.

Barcellona è stata la città dove ho fatto l'erasmus. Il problema è che l'erasmus è iniziato a febbraio 2020. Ho vissuto normalmente per un mese, poi all'improvviso ha chiuso tutto. Avevo un laboratorio dove stavo facendo il tirocinio. Già non mi sembrava di essere partita granché bene, dopo essere rimasti bloccati a casa una parte di me ha completamente smesso di funzionare e il tirocinio è andato uno schifo, essenzialmente perché non lavoravo. Ormai sono due anni che continuo a ripensare a che tesi ridicola ho portato alla laurea e a quanto mi sono scudisciata nella schiena per questo. Ancora non ne vengo a capo, né riesco a perdonarmi. Sta di fatto che il resto dell'erasmus è stato, più di tutto, le quattro mura estremamente blu della mia camera, quattro come le persone con cui ho passato il lockdown e con cui, com'era naturale, si passava il tempo a sbronzarsi, allenarsi, ascoltare musica e guardare cose alla TV. Solo che era speciale, perché eravamo in una situazione di crisi fuori dall'ordinario, a livello individuale e mondiale. Quindi dietro a tutto il tempo che ho passato lì c'è stato un vissuto emozionale molto forte.

Quando abbiamo preso l'aereo sabato scorso e ho realizzato che stavo ritornando a Barcellona, mi sono sentita piuttosto euforica. Non vedevo l'ora di tornare a passeggiare per tutte le strade a cui avevo agganciato dei ricordi, che fossero pre-lockdown o posteriori, di quando era comunque tutto chiuso ma si poteva di nuovo uscire a passeggiare e vedere altri esseri umani. Solo per vedere un po' la città nel suo complesso le giornate a nostra disposizione si sono riempite, tanto che sembravano lunghe come intere settimane. Camminavamo ventimila passi al giorno e facevamo in modo e maniera di mangiare patatas bravas in un posto diverso ogni giorno. Ci sparavamo tutti i monumenti e i siti di interesse che potevamo, nei limiti del viverci comunque questa settimana con dei ritmi umani. E comunque per tutto il tempo in cui siamo stati lì mi sentivo perfettamente a mio agio. Barcellona è una città che ho desiderato estremamente conoscere fin da quando ho iniziato ad abitarci, ed è una conoscenza che si può approfondire all'infinito, dalla storia urbanistica, agli eventi più importanti, alle storie dei singoli quartieri. Una volta che me l'hanno un po' spiegata, l'ho capita e la sento mia, al contrario di altre città che invece non sono mai riuscita a farmi entrare in testa. Solo che poi, quando è stato il momento di ritornare in Italia, non ho provato neanche un briciolo di nostalgia, come se tutto fosse avvenuto in modo meccanico, oserei dire perfino meccanicistico. Sveglia, fare colazione, fare valigie, prendere aereo. Tutto come programmato. Mi sembra così strano essere privata di questo sentimento, proprio in questo periodo, in cui mi sembra che tutte le mie emozioni siano come attutite, e proprio dopo essere tornata da Barcellona, che è il fulcro di tante cose che mi sono successe a livello interiore. Di solito sentire il carrello dell'aereo che si stacca da terra mi riscuote sempre da qualunque torpore, mi fa capire che sì, sta succedendo davvero, sto viaggiando, e mi sembra quasi che la sensazione della terra che mi attira a sé sia un invito a lasciarmi andare alla nostalgia e a non partire, e che lo strappo che dà l'aereo al decollo sia il corso inarrestabile del mio destino. Di solito me lo sento nella pancia. Stavolta niente.

Non so, forse è che non sono finite le vacanze e ho ancora due settimane di posti e persone da vedere davanti a me. Forse è che Barcellona ormai la sento come una delle tante case del mio cuore, ed è come se sapessi già che ci tornerò. Forse è davvero parte di quel pattern per cui non riesco più a sentire le cose altrettanto genuinamente rispetto al passato, e sto ancora cercando di capire quale problema stia al fondo di questo sintomo, ma non è per nulla facile. I pensieri si collegano l'uno all'altro, ma più che una catena logica finiscono per formare un groviglio infinito dove mi sembra sempre di ripassare per gli stessi punti. E forse anche questo viaggio, più che una semplice vacanza, è stato un cercare di ripassare da un punto sperando di ritrovare qualcosa.

martedì 26 novembre 2019

REG 6344

Time heals,
Time deletes
Time rises and retreats
And like the tide it brings
afloat, and it buries -
Eternally stirring
to merge and divide,
Eternally recurring.

Fear not,
sand grain of mine.

venerdì 8 novembre 2019

REG 11614

È un sole più nuovo
a far breccia
nell'incantesimo della nebbia,
colta in flagrante nella valle intorpidita.
Coi suoi dardi la sfida,
ne scioglie il mistero -
E adesso che in me
è risvegliato il canto,
possa io essere il bardo
a raccontarne le gesta.

giovedì 21 marzo 2019

Flussi fuori sede.

Ogni tanto mi rendo conto di star abbracciando, negli ultimi tempi, cambiamenti più grandi di me, soprattutto perché tanto repentini. Non che io non mi sentissi in qualche modo già pronta. C'è una parte di me che ogni volta aspetta, segretamente, silenziosamente, che le circostanze siano giuste, e quando i cambiamenti necessari arrivano spinge il mio entusiasmo come un fiume in piena. A volte sono solo torrenti, ma ora è completamente diverso.

Ci sono giorni in cui nella mia mente è primavera, ed ogni stimolo fa fiorire mille nuove idee, ed ogni idea si realizza con veemenza, ed ogni briciolo di energia che impiego mi motiva a spenderne altri cento. Ogni nuova canzone diventa la mia canzone preferita per qualche giorno. Imparo di nuovo i testi a memoria. Suono e canto di nuovo. Ballo per tutta la notte e ritorno a casa completamente sobria, in bici, alle sei del mattino. Cucino un'infinità di piatti, affettando le verdure il più sottile possibile. Mi circondo di tutto ciò che a contatto con la mia anima vibra per simpatia.

Ci sono notti in cui, se il mare sono io e il fiume è tutto ciò che mi spinge a cambiare, il mio passato tiepidamente risale su per la foce come una marea, rimescolandosi con il presente, facendomi dimenticare di chi sono e ricordandomelo al tempo stesso. Ritorno a rimuginare sulle stesse cose, ad affezionarmi alle stesse canzoni di sempre, a ripensare alle stesse persone e a domandarmi perché le cose vanno come vanno. Ricado nelle mie cattive abitudini, a volte peggiorandole ancora.

Mi assale una grande confusione quando penso all'enormità di realtà, volti, storie, persone, contesti che ho incontrato negli ultimi anni, quantità che cresce in maniera esponenziale col passare del tempo. Mi impressiona, guardando indietro a un qualunque periodo della mia vita, constatare che l'insieme delle mie attività e delle persone che mi circondavano era sempre diverso, salvo rarissimi capisaldi. E pure mi ostino a non lasciar andare via nulla, a conservare sempre tutto, come gli scontrini ed i biglietti che tenevo prima in una borsetta a tracolla, poi ho trasferito in una piccola scatola, e chissà quando arriverò al punto di aver bisogno di una scatola più grande, e poi ancora di un'intera stanza.

Tuttavia, man mano che allargo il mio spettro di conoscenze -- che si tratti di persone, cultura generale o saperi accademici -- divento cosciente di legami e associazioni tra le cose più insospettabili. Forse ostinarsi a conservare sempre tutto può valere qualcosa? E quando sarà raggiunto il compromesso tra la mia personale serenità, dipendente dal soddisfare la mia mania di conservazione, e la quantità di conoscenze che sono mentalmente in grado di gestire?
Forse che, come ne La Storia Infinita, ogni volta che soddisfo un impulso a cambiare, dimentico qualcosa su chi ero prima? Così come tutte le cellule del mio corpo vengono sostituite in un arco di tempo finito, anche il mio stesso essere potrebbe sostituirsi a se stesso pezzo dopo pezzo fino a non essere più quello di partenza?

Forse dovrei iniziare una volta per tutte ad andare a letto presto e basta.

lunedì 15 ottobre 2018

Conclusioni e spunti futuri.

Quando ero al primo anno, dotata di badge da appena tre o quattro mesi, lo persi. E feci senza per tutti i tre lunghi anni che mi separavano dal conseguimento del titolo. Affrontai senza tutti gli esami, temendo di scoprire ogni volta all'ultimo momento che in realtà il badge serviva. Ma non è mai servito davvero, e così, quando questa mattina sono andata a ritirare il badge nuovo che mi accompagnerà nei due anni a venire, ho provato una sensazione decisamente strana.
Come pure è stato strano andare in laboratorio con un vassoio di pasticcini, da mangiare di gusto insieme a tutti gli altri ricercatori, dottorandi, borsisti e tesisti che nei lunghi mesi di tirocinio e scrittura della tesi erano sempre lì, tutti i giorni, a scambiare con me saluti, battute e stralci di vita quotidiana. Tante volte in pausa pranzo ci ritrovavamo nel cucinotto gli avanzi di qualche vassoio di pasticcini portato da qualcun altro. Oggi in qualche modo sentivo che era il mio turno. E mentre fare le considerazioni conclusive tra un bigné e l'altro e ripercorrere un po' quella che è stata la mia seduta di laurea con tutti i suoi momenti salienti e ridicoli è stato divertente, riprendermi una volta per tutte le mie posate personali, che erano rimaste nell'armadietto per sei lunghissimi mesi, mi ha lasciato un senso di vuoto. La firma all'uscita dal dipartimento, che fino alla scorsa settimana era una cosa quotidiana, oggi, sapendo di farla per l'ultima volta, era improvvisamente la firma più importante della mia vita.
E altrettanto strano è ritrovarmi a pensare che i tre lunghi anni trascorsi a fare lezione e sessioni intense di studio in via della Beverara siano finiti lo scorso venerdì nel momento in cui, discussa la tesi, ce ne siamo andati a fare il rinfresco.

In tutto ciò ancora fatico a rendermi conto di essere riuscita ad arrivare alla fine della triennale. E per quanto i miei giorni liberi prima dell'inizio della magistrale siano pochi, si tratta comunque di un'intera settimana, che sto usando per mettere a posto tutte quelle piccole cose che per anni non ho mai avuto il tempo di curare. Specialmente nella mia stanza. Ad oggi, i vestiti con cui mi sono laureata sono ancora buttati sulla sedia, ma al tempo stesso tutto il mio arsenale di gioielli è stato preso accuratamente in rassegna, scremato dalle chincaglierie e ridisposto sullo scaffale in un ordine intellegibile. Ed erano tantissimi. Così come pure la vasta popolazione di scontrini, biglietti, abbonamenti e promemoria che da dicembre 2017 ad oggi si era accumulata in ben due portafogli diversi. Arriverà anche il turno dei vestiti ammucchiati sulla sedia. Sono di quelle cose che semplicemente in periodo di lezioni o di esami uno pensa "le farò quando ho un momento di calma, magari il prossimo weekend". Poi succede che in settimana non studi niente, rimani indietro, e il weekend ti serve per recuperare tutto, e tutte quelle piccole cose un po' insignificanti rimangono lì in attesa di essere razionalizzate e metabolizzate. In questo senso, l'università è una realtà che impegna tutte, ma proprio tutte le energie. Ed essere arrivata in fondo adesso mi permette di tornare in possesso di tutto il tempo e la concentrazione che fino alla settimana prima erano esclusivamente finalizzate, appunto, ad arrivare in fondo.

Non che mi sia dispiaciuto immergermi in questo percorso e lasciare che per me diventasse totalizzante. Non è obbligatorio che l'università comporti l'abnegazione completa, e tante persone me l'hanno insegnato e dimostrato. E per me l'università non è stata abnegazione: per quanto io abbia dovuto comunque sacrificare delle attività che richiedevano da parte mia un impegno costante e ingente, e per quanto io abbia dato in tempo tutti gli esami e per questo mi sia disperata, fuori dall'università c'era un mondo di tante realtà diverse con cui ho interagito di continuo, e che mi ha dato tantissimo a livello personale. Forse è per questo che sono così tante le persone a cui sento di dovere un ringraziamento per essere arrivata fino a qui così come sono. E quindi, a tutti coloro che seguono va la mia più sentita gratitudine.

A tutti quelli che hanno ripassato con me per gli esami, anche subito prima, e che mi hanno fatto ricordare all'ultimo momento di cose mai studiate che puntualmente mi venivano chieste. I miei risultati senza di voi non sarebbero stati certo così brillanti, checché se ne dica (in questo senso ritengo che anche la fortuna abbia giocato un ruolo determinante, e vorrei che ciò fosse ben chiaro).
Ai miei compagni di corso ed amici, coi quali ho condiviso a tuttotondo questo percorso di apprendimento e crescita, e ai quali auguro buona fortuna per tutto.
A Bonny, che è stato il mio primo grande amico dell'università e ha assistito e partecipato con veemenza alla disperazione per i primi esami.
A Fra, per essere stato sempre rassicurante e sereno mantenendo allo stesso tempo un senso dell'umorismo inossidabile.
A Shavs per le sue strane poesie, indovinelli e riflessioni, e per spargere sempre positività, indipendentemente da tutto.
A Ted, con cui condivido l'amarezza dell'essere pendolare, e che si spende sempre disinteressatamente per essere d'aiuto.
A Ida, per aver preso parte insieme a me a grandi ondate di disagio, panico, tristezza, esuberanza, e per non aver mai mancato, per esigenze o per piacere, di essere pronta a disposizione con una stanza degli ospiti, una cucina da mettere sottosopra e un buon tè caldo.
A Marta, perché i nostri cuori vibrano insieme al ritmo della stessa musica, e per il sostegno vicendevole e l'ospitalità che ho sempre trovato in lei ogni volta che ne ho avuto bisogno.
A Vanessa, perché c'è sempre stata per una chiacchiera, un abbraccio, una parola di conforto, una pedalata o un caffè, fin da quando ci siamo sedute vicine e strette la mano al Welcome Day in aula magna.
A Davide, per tutto il supporto nello studio, i dilemmi teorici, i dank memes, gli apprezzamenti per Ratboy Genius e la sua amicizia.
A Gabri, per avermi ricordato nei momenti in cui tutto sembrava irrecuperabile che non ero l'unica ad essere disperata e bisognosa di fare altro, e per essere stato un compagno di studi spensierato ma immancabilmente affidabile.
A Emilia, che è stata mia compagna di corso solo per un semestre, ma è stata un'amica sincera e una finestra sul mondo, che ha condiviso con me il suo mate e la sua bombilla, il suo tavolo e la sua casa, i suoi spazi ed il suo tempo.
Ad Alessandra R., con cui ho condiviso birre e tè bevuti sempre al volo, lunghe giornate di studio, ansie e progetti, e più in generale la consapevolezza reciproca di avere entrambe una vita frenetica.
A Stefano A., per aver creato con me un'amicizia così bella a partire da una circostanza così strampalata come può essere una complicanza burocratica durante un esame di fisiologia.

Alle dott.sse Enza e Alessandra B., validissime tutor, impeccabili relatrici, compagne di laboratorio e persone amiche. Alla prof.ssa Marini, prima e ultima docente ad assistere a una mia esposizione: l'esame di biologia cellulare al primo anno, la tesi di laurea alla fine.
A tutti coloro che ho incontrato e conosciuto al DIMES durante il tirocinio, chi di passaggio come me, chi come membro del dipartimento in pianta stabile.
A tutti i professori che ho incontrato durante la laurea triennale, perché ciascuno di loro mi ha lasciato qualcosa, a livello didattico e a livello umano.
A tutti i docenti i cui percorsi si sono incrociati con il mio a Vergato, che fosse alle medie o al Fantini. Devo tantissimo di ciò che sono oggi alla mia formazione in quegli anni e agli stimoli che ho ricevuto proprio dai prof. Una speciale menzione va ai docenti di musica, i cui insegnamenti non andranno mai dimenticati, alla professoressa Manicardi, colonna portante delle scuole medie, e alla professoressa Santi, che con la meritata pensione ha nondimeno fatto mancare al Fantini uno dei suoi pilastri più solidi.
Ai miei primi maestri, Aldo, Beatrice, Emanuela. Le mie personali fondamenta sono i loro insegnamenti.

A Stefano B., per aver mantenuto sempre con me, a prescindere da tutto, un rapporto di stima reciproca.
A Pablo, per avermi fatto scoprire che inaspettatamente lontano da casa mia vivono persone inaspettatamente affini a me.
A Christopher, che dall'Inghilterra ha seguito pedissequamente i miei progressi e non ha mai mancato di ribadirmi che il mio duro lavoro avrebbe dato i suoi frutti.
A Ilaria, per non aver mai lasciato davvero la presa anche se le circostanze ci hanno allontanate. Confido che, per quanto le nostre vite possano divergere in futuro, sapremo sempre trovare un punto di contatto.
A Eleonora, Monica, Elisa, Debora, per aver condiviso con me le uscite spicciole del venerdì sera, che prima di conoscerci erano un'abitudine a me completamente estranea. Grazie per aver riso e pianto con me, confidato a me e in me, litigato con me, quando fino a pochi anni fa ci conoscevamo appena.
A Nicola, per tutte quelle cose peculiari che accomunano noi e nessun altro, e allo stesso tempo ci rendono così radicalmente diversi. Nell'impronta che lascerò sul mio operato futuro, ci sarà anche qualcosa di tuo.
A Gogi e Berna, due animali totem e fratelloni acquisiti, che hanno arricchito il mio percorso di musica, spunti creativi, progetti, persone, serate tanto belle quanto rocambolesche, esperienze completamente nuove. Quando in un periodo un po' triste ho detto loro che mi sembrava di non avere intorno nessuno su cui contare, e loro mi hanno risposto "Hai noi", non lo dicevano per dire.
A Giuseppe, quintessenza del pendolarismo in quanto lavoratore a tempo pieno sui treni, conosciuto per caso, incontrato quasi sempre per caso, ma nondimeno uno dei miei più cari amici.
A Damiano, amicizia tra le più longeve, che non ha sofferto di alcuni anni di allontanamento perché nel cuore siamo sempre rimasti legati.
Ad Antonio, Noemi, Victon, Ciro, Nicole, e tutte le amicizie nate in forma virtuale, ma che davvero non potrebbero essere più reali di così.

All'ANPI di Sasso Marconi, che per me è stata come una famiglia acquisita, alla quale ho fatto mancare un po' di sostegno quando le scadenze accademiche stringevano, e per la quale ho messo in secondo piano altre scadenze accademiche quando c'era bisogno di me. A ciascun componente del direttivo va un pensiero diverso e speciale.
A tutte le realtà associative che intorno all'ANPI gravitano e con essa collaborano: il Campanile dei Ragazzi, le Donne di Sasso, le Voci della Luna, il gruppo Marija Gimbutas.
In ciascuno di questi gruppi ho conosciuto persone ricche di umanità e cultura, che negli anni dell'università hanno sempre confidato in me, al tempo stesso dandomi un'occasione, partecipando ai loro progetti, di coltivare il lato umanistico della mia persona - che studiando così duramente in una facoltà scientifica mi sarebbe altrimenti venuto a mancare.

A Yeasin, che mi ha fortuitamente recuperata per i capelli quando il giorno prima della discussione ero sul punto di perdere del tutto il senno e la forza di volontà.

A tutte le persone conosciute negli ultimi tempi perché legate a Torino o a Genova. Le circostanze dei nostri incontri sono sempre state fugaci, ma sono il motivo per cui in queste città mi sento un po' più a casa.
Ad Alessandro, per aver avuto con me tanta, troppa pazienza quando i miei modi sono stati resi bruschi dalle incombenze. Per avermi sempre incoraggiata, restando al mio fianco senza mai arretrare da quando ci siamo conosciuti. Per non aver perso la lucidità nemmeno per un attimo, supplendo così ai momenti in cui la perdevo io. Per essere la fonte del mio equilibrio, senza chiedere mai niente in cambio.

Ai miei genitori, per aver sopportato la mia sostanziale assenza nelle fasi più totalizzanti di questo percorso e per avermi sempre saputo assistere e consigliare, per quanto ancora le biotech non abbiano ben capito che cosa siano.
A mia madre, per essere sempre stata, fino all'ultimo brindisi, una figura di mediazione, di interazione, di coesione, anche nei momenti in cui questo ruolo si è dimostrato estremamente difficile da ricoprire.
Ai miei fratelli, che mi hanno aiutato a staccare dallo studio quando era il momento e mi hanno lasciato studiare quando ce n'era bisogno, e che mi hanno vista ridere, piangere e diventare di tutti i colori quotidianamente, ma che alla fine di questo percorso sento più vicini a me che mai.
A tutta la mia famiglia, chi al nord, chi al sud. La distanza con questi ultimi sarà sempre e solo fisica, perché un grande pezzo del mio cuore vive a Somma Vesuviana e vi appartiene.
A mio zio, che non ha potuto fisicamente vedermi raggiungere questo traguardo, ma gli sarebbe piaciuto molto. Ha avuto un ruolo determinante nel definire ciò che sono oggi.

Grazie.

mercoledì 7 febbraio 2018

Horror vacui

Ci sono ancora tutte le carte con gli ultimi appunti presi per organizzare i mille eventi che incombevano, il pranzo di tesseramento, la riunione di bilancio del centro anziani, l'assemblea degli iscritti. Sarebbero ancora appoggiate sulla tavola così come erano state lasciate, se non avessimo dovuto, ad un certo punto, e solo dopo giorni, arrenderci e spostarle per apparecchiare. La straziante necessità del gesto quotidiano che frantuma il fermo immagine della tragedia. C'erano un blocco note, ricavato artigianalmente da una molletta e un certo numero di volantini inutilizzati, un portamine, sempre lo stesso da anni e anni, una gomma per cancellare, altri fogli con appunti, stampe di comunicati, documenti da leggere, i due computer, la memoria esterna. Sul calendario, molte date contrassegnate da appuntamenti, annotati con un pennarello indelebile rosso. Di fianco, sul muro, una tabella stampata, meticolosamente ritagliata e fissata con lo scotch, che riporta tutti gli orari dei treni in partenza dalla stazione sotto casa, per una rapida consultazione in caso di dubbi. Treni che continuano ogni mezz'ora a passare, chiaro messaggio da parte dell'universo che lì fuori tutto sta andando avanti, anche se io sto ferma, seduta sulla sedia e riversa sul tavolo dalle ore tre, nella stessa identica posizione o quasi, a pensare, o forse a non pensare più, ogni tanto a piangere, ma a che pro? Intorno a me quello che rimane della famiglia, dopo che tutti hanno fatto ritorno alle proprie città. Ce ne stiamo sparsi per la stanza a parlare delle persone che c'erano, di quanto fosse stata bella e adeguata l'omelia del parroco, ogni tanto cade il silenzio, rotto da qualche sospiro. Così tanti spazi vuoti. Una intera casa vuota, ora. Lui la riempiva tutta, sapeva sempre trovare l'aneddoto giusto per strappare una risata, oppure un filosofo da citare, una vecchia serie di foto da far vedere e di cui sapeva raccontare ogni singolo particolare, una parola dimenticata in dialetto di cui sottolineava l'etimologia. Crisòmmola, per esempio. Significa albicocca. E deriva dal greco. L'unica parola napoletana che mi ricordo delle tante che mi raccontava. Quando ero molto piccola, mi ricordo anche che mi spiegò il significato della parola "evitare", perché io ancora non lo sapevo. Fece rotolare un rotolo di scotch oltre il margine della tavola e acchiappandolo al volo disse: "Ecco, io ho evitato che lo scotch cadesse". Ci sono un'infinità di cose che mi ha raccontato, insegnato, lasciato in eredità. Ora più che mai ho una paura infinita di perdermele per strada.