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giovedì 8 ottobre 2015

Stress.

Forse dovrei prenderla un po' più alla leggera, questa storia dell'università.
"Quarto giorno di uni e tutto va bene", ho detto oggi a non so bene quante persone. E invece tutto va bene per un cazzo.
Sicuramente il fatto che io abbia deciso di iniziare a frequentare da pendolare non aiuta. Un'ora e mezza all'andata e un'ora e mezza al ritorno ogni giorno finiscono buttate nel cesso, detta proprio brutalmente.
E poi in generale mi sembra di annaspare, di non avere il tempo di fare nulla. Perché sì, mentre sono sul treno di ritorno afferro un post-it e ci scrivo "Scaricare dispense bio animale", "Continuare formulario", "Rivedere appunti". Ma poi arrivata a casa sembro essere totalmente incapace di concentrarmi sulle cose. E quindi non faccio nulla, almeno fino a ora di cena. Dopo la cena almeno un po' di pace la trovo. Prima è tutto un genitori che chiedono favori, fratelli affettuosi che vogliono le coccole, tutti che vogliono sapere com'è andata la tua giornata. Ma come vuoi che sia andata? Sono andata a Bologna, ho fatto lezione, sono tornata, è stato interessante anche se stancante, fine.
In generale ho paura di questa sostanziale chiusura verso il mondo, perché non è da me. Ho paura di tutto. Arrivata a casa vorrei veramente mettermi lì e raccontare la mia giornata. Ma vorrei anche suonare, spulciare della buona letteratura, guardare gli appunti e gli approfondimenti, sentire i miei amici, uscire a fare un giro. Ma non ci riesco, perché qualunque cosa io scelga di fare vengo interrotta da qualcos'altro di più urgente. Oggi poi sono arrivata al colmo.
Prima ho incontrato un ragazzo che ha fatto la mia scuola superiore, quindi ci conoscevamo di vista. Già che c'ero mi sono seduta e abbiamo iniziato a fare chiacchiere. Ma non vorrei esattamente averlo fatto, col senno di poi. Abbiamo parlato per quaranta minuti buoni esclusivamente di vita universitaria e di quanto faccia male alla salute. Il quadro che è emerso è che la sensazione di arrivare a casa e voler morire non è affatto una cosa momentanea che passerà nel farci l'abitudine, ma sarà sempre così se non peggio. In più è statisticamente quasi certo che prenderò su del peso e finirò per avere problemi alla vista a furia di star sui libri. Il quadro che è emerso, in definitiva, è che per quanto finga di essere entusiasta, vorrei solo scappare via da questa cosa, perché mi rifiuto di credere che la vita di un universitario sia sempre e solo così, ma a quanto pare lo è.
Dopo questo idillio, arrivata a casa pensavo di mettermi a leggere qualche articolo di biologia e scaricare qualche dispensa. Solo che prima dovevo salutare tutti, recuperare la voglia di vivere, sistemare la mia stanza, aiutare ad apparecchiare, già che c'ero anche cenare, solo che poi dopo cena è saltato fuori che erano finalmente arrivati i DVD di un concerto fatto ad agosto e quindi che figata, guardiamo questi benedetti DVD, e i DVD non partivano, e provali sul tuo computer per piacere, va bene mamma, ci provo sul mio pc ma non partono lo stesso, per favore aiuta tuo padre a scaricare quel programma, mamma ma guarda che se cerchi su internet lo trovi, comunque ora arrivo e ci guardiamo.
Mia madre ha deciso che ero troppo irritabile per i suoi gusti e quindi ha pensato bene di aiutarmi a superare questo momento di sconforto e disperazione sbottandomi contro urlando qualcosa del tipo "Certo che rapportarsi con te è veramente difficile, hai un atteggiamento strafottente, per i cazzi tuoi c'è sempre tempo mentre per le cose mie non è mai il momento buono, va bene che devi studiare ma la parolina chiave è collaborazione, adesso sei più grande e dobbiamo entrare in un altro meccanismo".
E ok, sì, in questi giorni ti ho risposto male tante di quelle volte. E hai anche tu stress che ti piove addosso da tutte le parti. Ma stasera, che mi stavo impegnando anche molto per non essere troppo acida e non rispondere troppo male come i giorni scorsi, perché devi far saltare fuori questo? A parte che porca miseria, devo studiare per davvero. Almeno finché cerco di capire come giostrarmi, sembra che sia troppo chiedere di essere lasciata stare un attimo. Se me ne vado a Bologna a stare con delle coinquiline, mi rimprovererai perché non sono a casa ad aiutarti a fare la cucina? Ma per favore.
Mi scoccia davvero che lei mi dica queste cose, come se fossi una buona a nulla. Magari lo sono pure. Non lo so.
Mi viene la tentazione di chiudermi a riccio, non pensare più a niente e a nessuno e andare in giro col paraocchi e i tappi alle orecchie, magari anche curando poco l'aspetto, perché non sembra, ma anche quello è un dispendio di tempo ed energie non indifferente. Ha un bel da dire mia zia. Ogni volta che mi sente al telefono se ne esce con un "Mi raccomando, non uscire mai di casa sciatta e struccata, vestiti bene, capelli puliti e tutto, perché il primo impatto è quello che conta" e bla bla bla. Quattro giorni a inventarmi abbinamenti decenti tra i pochi panni che ho e già non ne ho più voglia. Se non riesco a truccarmi la mattina secondo lei dovrei farlo in treno o in bagno prima di lezione. Seriamente. Seriamente. La cosa è che il primo impatto è davvero quello che conta. E quindi per quanto mi possa sembrare sciocco e superficiale un discorso del genere, provo lo stesso a fare del mio meglio, vestendomi con qualcosa di carino quando vorrei solo rifugiarmi in una felpa gigante dove andare definitivamente in letargo. Perché io sono sicura che prima o poi ci cadrò, in letargo nella felpa. E sono anche piuttosto sicura che il giudizio degli altri sul proprio conto sia minato dall'aspetto e dal modo di apparire che si ha. Odio pensarlo. Ma lo so per esperienza, in pratica.
A me sembra semplicemente di stare annegando in un vortice di cose. Pressione e paranoie da tutte le parti. Sprechi di tempo come perdite di acqua in un rubinetto. E quel tipo che ho beccato in treno mi ha detto che un suo compagno era andato in esaurimento nervoso, mentre chiacchieravamo amabilmente. Secondo me prima o poi ci arriverò anch'io. Tra un paio di mesi o forse uno solo, o forse tra una settimana. Si accettano scommesse.

Ragazzi, l'università fa male, non provateci a casa.

lunedì 14 settembre 2015

Rivincita.

Alle volte, le persone che sembrano più normali sono quelle che hanno i disagi mentali più pesanti.
Lui è una di quelle persone. Lo vedi camminare per strada, andare al lavoro, fare la vita del pendolare come una persona normalissima. Se ci parli sa essere veramente simpatico, infarcisce le conversazioni di umorismo arguto e verve di uomo del sud, e se la ride sotto i baffi quando vede che una sua battuta suscita l'ilarità generale. Una brava persona.
Poi ritorna a casa, e per la maggior parte del tempo, non fosse per piccoli dettagli, si comporta come un normalissimo padre di famiglia.

Prima, a cena, si è esplicato uno di questi piccoli dettagli.

Ero tranquillamente seduta a tavola - per la precisione a capotavola, dalla parte opposta rispetto al divano - e stavo finendo la cena. Avevo di fronte a me l'insalatiera e tre o quattro ravanelli appoggiati sul tavolo, in attesa di essere divorati. I miei fratelli si erano già alzati, avendo finito di mangiare poco prima. Mentre il più piccolo si avviava con tutta la calma del mondo verso la cameretta, è inspiegabilmente inciampato e caduto a terra facendo un busso considerevole. Il caso voleva che proprio in quel momento lui stesse uscendo dal bagno, quindi quando se l'è trovato di fronte e ha realizzato che il rumore era stato causato dalla sua caduta, ha iniziato a fargli una delle sue solite sgridate sulla scia del:
"Te lo dico sempre che in casa non devi correre *bestemmia* Ma insomma, non impari mai?".
Sia mia madre sia io siamo però intervenute in sua difesa, dicendo che non stava correndo. Non potendo battere in ritirata in modo così poco dignitoso, ha convertito la sua invettiva in:
"E allora se non stavi correndo sei un provolone!".
Ora, sono diciotto anni e tre quarti che assisto a scene simili. E in diciotto anni e tre quarti ho imparato un paio di cose su come comportarsi. Una di queste cose è il fatto che quando inizia a fare così, non c'è replica o argomento razionale che tenga. Bisogna solo stare in silenzio e rimuovere il tutto, fare finta di nulla. Il mio problema è che, nonostante siano almeno dodici anni che mi si dice di stare zitta, ho sempre il vizio di rispondere e dir la mia. Per tentare di farlo ragionare. O, se non altro, per non arrendermi al silenzio così facilmente. Penso sia inutile specificare che tutti i miei sforzi in questo senso sono sempre stati vani. E sapevo che sarebbe stato vano anche stavolta. Però non ho potuto esimermi dal dirgli, tentando anche di sdrammatizzare un po':
"Ma perché, tu non sei mai inciampato? Che sarà mai".
E nel momento stesso in cui pronunciavo questa frase, sapevo già la risposta che avrei avuto. Non poteva esserci un'altra risposta. Ero seduta a tavola a mangiare la mia insalata e mi ero permessa di controbattere su un argomento che non mi riguardava. E ogni volta che sono seduta a tavola a mangiare la mia insalata e mi permetto di controbattere su qualcosa che non mi riguarda, la risposta che mi viene data è sempre quella. Stesso tono. Stesso atteggiamento. Stesse identiche parole.
"Senti, tu ti stai mangiando l'insalata? Allora, per piacere, pensa a mangiare e fatti i cazzi tuoi".
E, mentre prendeva posto sul divano di fronte alla tavola, non si è smentito e l'ha detto. Ero così pronta a sentirmi dire quelle parole, che sul mio volto si era dipinta, un po' involontariamente, un po' come estremo tentativo di controbattere con linguaggio non verbale, un'espressione che stava a metà tra la rassegnazione e il 'seh vabbè'. E mentre pensavo a quanto potesse essere pittoresca la mia faccia in quel momento, mi prefiguravo una reazione rabbiosa, sicuramente rabbiosa, se non iraconda. In fondo, me l'ero cercata. Ero preparata all'urto.
Però si è superato. Stavolta si è veramente superato. Si è alzato dal divano, ha afferrato il capo della tavola opposto a quello dove io ero seduta, l'ha sollevato di qualche centimetro e ha iniziato a scuoterla a destra e manca mentre iniziava ad urlare. Non mi ricordo più nemmeno cos'è che urlava. Ah, già, qualcosa sul fatto di non istigarlo e di non riprovarci mai più, oltre ad aver ribadito il concetto di farmi i cazzi miei, nel caso non mi fosse stato chiaro prima. Ha fatto marcia indietro, è tornato a sedere sul divano e mi ha chiesto urlando se avessi capito o meno. Alla mia risposta affermativa, si è alzato di nuovo e l'ha rifatto. Io ho protestato "Ma stavo dicendo di sì!". Ed ero sincera. Non avevo davvero intenzione di fare facce strane o assumere atteggiamenti di superiorità. Stavo solo dicendo "Sì, sì, va bene". Non so se ha visto nella mia faccia qualche smorfia strana o che. Sta di fatto che è tornato lì, ha ripreso a giocare al terremoto con la tavola e ha continuato a urlarmi contro. Un ravanello è rotolato giù, la bottiglia d'acqua si è rovesciata (fortunatamente era tappata) e diverse stoviglie hanno rischiato di cadere per terra. Poi, mentre mia madre gli faceva notare che forse stava un po' esagerando (al che lui ha prontamente ribattuto: "Sì, ma tu non hai visto l'espressione che ha fatto!"), è ritornato al suo posto sul divano e, non contento, ha tentato di intimidirmi ulteriormente uscendosene con un:
"Non pensare di andare da nessuna parte, in questi giorni. Uscirai per andare all'università e basta, e se andrai da qualche altra parte, quant'è vero Iddio, ti vengo a prendere e ti faccio fare le brutte figure".
Di solito, quando fa queste uscite, scoppio a piangere senza possibilità di controllo. Ma stasera, non so per quale miracolo, e senza neanche troppo sforzo, sono rimasta impassibile tutto il tempo a fissare la mia insalata e continuare a mangiare come se nulla fosse. Non un muscolo della mia faccia si è mosso a dargli soddisfazione. Anche mentre la bottiglia si rovesciava e cozzava contro i bicchieri, anche mentre il ravanello rotolava fino a cadere, anche mentre lui mi urlava in faccia. Anche quando si è tornato a sedere sul divano ed è stato finalmente in silenzio. Ho finito la mia insalata, sono andata a sciacquare il ravanello che era caduto e che mia madre mi aveva gentilmente raccolto, mi sono mangiata anche quello. Ho guardato finalmente in faccia anche lui. Ma lui forse non lo sa, perché guardava intensamente (o forse fingeva di guardare) la televisione. Ho sorriso tra me e me, più di una volta. Non una parola. Come una sfinge. Mia madre mi ha chiesto aiuto col computer e io le ho parlato con il tono di voce più normale del mondo. Come se nulla fosse stato. Ho sparecchiato tranquillamente, sempre sogghignando sotto i baffi. Ce l'avevo fatta. Ero riuscita a non scoppiare, finanche a non irrigidirmi. Come se nulla fosse stato. Colmo dei colmi, mentre toglievo la tovaglia mi sono accorta che il piano in formica, al capo opposto al mio, si era spostato rispetto alle gambe del tavolo, quindi c'era una parte di legno che spuntava. Ho di nuovo sorriso, come a dire "Ma guarda un po'". E mi sono messa ad ispezionare il tavolo davanti ai suoi occhi, come se non sapessi che quel danno l'aveva causato lui pochi minuti prima, per tentare di intimidire me. E poi, finalmente, sono uscita dal soggiorno.

Ho percorso il corridoio, sono arrivata alla mia stanza e, chiusami la porta alle spalle, finalmente ho potuto piangere in pace e mettermi a scrivere.

Che poi, ho voluto mettermi a scrivere ma non so neanche il perché. Sentivo solo che volevo digerire la scotta che mi ero tenuta dentro e che questa sarebbe stata una via per farlo. O forse volevo soltanto esporre il mio trofeo.
Perché stasera ho vinto io.
Stasera lui ha fatto il diavolo a quattro, ma ho vinto io.

Non so se ha davvero intenzione di tenermi segregata in casa fino ad ottobre, per una frase di troppo e una smorfia. Vale che in quel momento stava facendo tutto il possibile per farmi sentire impotente, quindi ha pensato bene di minacciarmi come se fossi una bambina. Di sicuro tra tre giorni si sarà scordato, e io sarò in giro a pensare a tutto tranne che a quello che è successo stasera. Almeno spero. Ma, anche se così non fosse, due settimane di clausura saranno bazzecole rispetto alla sensazione di forza che ho provato mentre lui tirava giù dal cielo tutti i santi del calendario e io ero tranquilla e impassibile a masticare la mia insalata.

E se ha intenzione di mettermi agli arresti domiciliari davvero, io andrò dove mi pare ugualmente. Che mi venga a prendere. Se si comporta come un pazzo nevrotico davanti ai miei amici e conoscenti, la brutta figura non la farò di certo io.

martedì 14 luglio 2015

Resoconto di una giornata estiva insolitamente produttiva.

Sveglia alle sei meno dieci dopo cinque ore di sonno turbato e disturbato
Treno alle sei e mezza
Viaggio reso ovattato dalla musica, dal sonno, e dai primi bellissimi raggi di sole che si spandevano in sordina sulle colline
Viaggio in autobus con la paura di aver perso la mia fermata quando ci mancavano ancora cinque minuti buoni
Discesa dall'autobus alla fermata giusta
Colazione tattica al bar
Pausa tatticissima ai giardini di fianco alla facoltà di Ingegneria
Rassegnazione al destino, mi incammino verso la facoltà
E comincia il TOLC.

Il TOLC è una specie di test d'ingresso unificato, valevole per più indirizzi e per più atenei diversi. 20 domande di matematica, 10 di scienze, 5 di logica e 5 di comprensione verbale, per un totale di circa 2 ore di panico.
A protrarre l'agonia, un appello infinito, cui seguiva una meticolosa lettura di istruzioni che stava quasi per portarmi all'esasperazione.
Di cosa mi preoccupassi in realtà non lo so bene nemmeno io. Tanto, se non mi fosse andata fatta bene, avrei chiuso il capitolo ugualmente scegliendo Astronomia invece che Biotec. E un punteggio decente non dico che fossi sicura di strapparlo, ma ci contavo, perché in cinque anni di scientifico qualcosa l'avrò pure imparata. Eppure avevo una tensione incredibile addosso, mi toglievo il cardigan, mi rimettevo il cardigan, mi mordevo le dita, tamburellavo ritmi in cinque quarti con le unghie sul tavolo, accavallavo le gambe, scavallavo le gambe, mi stringevo le spalle. Come avrò fatto a concentrarmi? Mistero. Però il test è andato inaspettatamente bene.

Fuori da Ingegneria alle 10 e mezza
Telefonate di rito a mamma e amici curiosi per comunicare i risultati
Camminata lungo via Saragozza alla ricerca della mostra di Escher che sapevo essere nei paraggi, e che poi ho trovato, annunciata da una lunghissima fila di persone
Qualche minuto di esitazione, poi mi fiondo nella fila
Quasi un'ora di coda
E finalmente riesco ad entrare.


Escher è qualcosa di geniale. E la mostra era strutturata benissimo. Tanto che più di una volta mi sono emozionata nel vedere quante cose potevano essere condensate in 500 centimetri quadri di carta su per giù (ma anche molti meno). La rivisiterei altre cento volte. Tra l'altro erano mesi che volevo andarci, ma mi sono sempre ritrovata costretta a rimandare causa esami. Ma oggi, siccome tanto a Bologna ci dovevo andare comunque, e soprattutto dopo aver imparato che la mostra era a un 800 metri dalla facoltà, non mi sono lasciata sfuggire l'occasione. E ho aggiunto un poster alla mia già artistica stanza.

All'una e mezza fine del giro.
Sole rovente, una cappa di calore incredibile, batteria del telefono quasi scarica. Quale momento migliore per cimentarsi nell'impresa di arrivare al centro di Bologna a piedi percorrendo via Saragozza? Arrivata a piazza Minghetti, non sapevo più che strada prendere. Consultare Google Maps mi ha confusa ancora di più, per cui, dopo aver girato due o tre volte in tondo per le stesse due o tre vie, sono salita su un A che passava, senza preoccuparmi di controllare in che direzione andasse.

Andava verso il Rizzoli.

Di conseguenza, in autobus fino al Rizzoli, capolinea e preso autobus in direzione contraria.
Sull'autobus un ragazzo continuava a guardarmi, sebbene tentasse di farlo in maniera discreta.
Scendo dall'A in cima a via Indipendenza e approfitto del vicino McDonald's per pranzare alla veloce, servita da un commesso incredibilmente simpatico
In tutto ciò mi era stato commissionato l'incarico di trovare un regalo di compleanno
Giro per negozi alla ricerca del suddetto regalo
Ritorno alla stazione
Alle cinque di nuovo a casa, coi piedi distrutti e tutto l'entusiasmo del mondo

Dopo aver festeggiato a dovere il buon esito dell'esame con un po' di sano ozio, cena
Troppe cose per cena, come al solito
Dopo cena, film

"Qualcuno volò sul nido del cuculo".

Ho pianto come una fontana da metà film in poi. Questa cosa di provare a farmi una cultura cinematografica mi inizia a piacere. In 18 anni non ho guardato molti più film di quelli che mi capitava di vedere alla televisione. Se poi consideriamo che da due o tre anni ho anche smesso di guardarla quasi del tutto, non è difficile immaginare che l'elenco di film veramente belli che conosco è ristretto a dir poco.
Quel film è una delle cose più intense che si possano trovare, sia per tematiche, sia per linguaggio. E guardarlo, ma soprattutto capirlo, è stato fondamentale.

E adesso sono le tre. Domani mattina non oso immaginare in che condizioni mi sveglierò. Staremo a vedere. Per oggi mi sento di aver fatto tante di quelle cose da aver vissuto tre o quattro giornate in una sola, quindi va bene così.

giovedì 11 giugno 2015

Danza Caracteristica.

Mancano 10 minuti a mezzanotte e io, maturanda disperata, sono sola, seduta alla mia scrivania, come ogni sera da tre o quattro anni a questa parte. Sono indietro con la tesina, con il ripasso delle materie d'esame, con le pulizie da fare in camera, con la prova costume, un disastro insomma. Pile di libri, appunti, agende, cumuli di vestiti tirati fuori dall'armadio alla rinfusa quando non sapevo cosa mettere, grovigli di cavi e caricabatterie di questo e di quello, fogli di carta da riciclo dove annoto liste di cose da fare a cui non mi atterrò mai. L'incombenza del tempo che scorre mi avvolge nel disordine. E io sono indietro, indietro con tutto.

Sono indietro con tutto e suono.

Suono la Danza Caracteristica di Brouwer, l'apoteosi degli accenti scompigliati tipici della musica sudamericana, tecnicamente un brano piuttosto complesso, tant'è che un passaggio su due mi esce sporco. Però funziona.
Suono il mio disordine, il mio stress, i miei accenti nervosi. Suono la mia gimcana quotidiana tra le cose che ogni giorno devo fare. Suono la gioia dell'imparare a ballare sotto la pioggia. E mentre suono mi libero di tutto, anche se quel barré mi viene solo una volta ogni tanto, anche se i rasgueados li butto giù alla cazzo, non importa, il ritmo va avanti, si muove impetuoso come una valanga, si infrange sulle cose intorno e si annida come un virus nella testa, nelle orecchie, nei piedi. Nella mia piccola stanza, seduta alla mia caotica scrivania, io, maturanda disperata, in quel momento sono io stessa il ritmo.

Sarà stato a dicembre che ho iniziato a lavorare a questo pezzo. Fin da quando l'ho scelto, insieme al maestro, è stato la mia scommessa. L'obiettivo era suonare tutti insieme a un concerto a tema musica sudamericana a maggio. Lo lavoravo per qualche settimana, poi lo lasciavo stare per fare musica antica o uno studio di Villa-Lobos, e qualche settimana dopo ero da capo. Non si spiega bene come, ma pur lavorandoci a più riprese, pur con tutta l'incostanza che mi è sempre appartenuta in tutti questi cinque anni in conservatorio, qualcosa nei mesi è andato formandosi. Tornavo sul pezzo sempre entusiasta, sempre decisa a superare gli ostacoli tecnici, a vincere la scommessa. A maggio, quando era il momento di decidere chi far partecipare al concerto, io non ero ancora pronta e mi sono messa da parte. Ma domani c'è il saggio di classe, l'occasione perfetta per redimermi e per redimere la Danza.

Domani sarò armata solo della mia chitarra e del ritmo. L'ansia mi bloccherà le mani e inibirà la mia gestualità, moltiplicherà l'imprecisione e l'errore, indebolirà i barré e i fortissimo. A farmi andare avanti sarà solo e soltanto il ritmo. Se saprò farmi guidare, se le mie mani reggeranno, e forse grazie a un pizzico di fortuna, come un virus il ritmo contagerà ogni cosa intorno.

E se riuscirò ad essere il ritmo, avrò vinto la scommessa.

domenica 8 marzo 2015

Frenesia, confusione interiore, panta rhei a caso e ansia da epiloghi.

Tra cento giorni c'è la maturità. Tra un paio di settimane abbondanti ho l'esame di guida. Domani sera parto. Domani mattina forse sono interrogata in storia (e mi ostino a non cominciare a ripassare nonostante sia praticamente ora di andare a letto). Alcune cose vanno come dovrebbero. Molte cose vanno a puttane.
Guardo la mia vita sfrecciarmi davanti passivamente mentre abbasso gli occhi sul cellulare per controllare se tizio o caio mi hanno risposto su whatsapp, o cerco su Youtube un'altra playlist di canzoni indie, quelle che mi varrebbero il titolo di hipster secondo cert'uni. Rispondo a un paio di messaggi, ascolto due o tre gruppi e siamo già a marzo. Ma non era gennaio un secondo fa? Che se poi mi ci metto e penso a tutte le cose che ho fatto negli ultimi due mesi, ma anche nell'ultimo anno, penso "certo che ne è passato di tempo, ne sono successe di cose, è cambiato proprio tutto da allora". E io sono lì in dormiveglia, tra il sonno arretrato e i mille impegni e i mille amici e le mille cose che riempiono la mia anima di vuoti incolmabili. Sono lì che faccio la gimcana tra le sfide di ogni giorno, e ogni giorno passa più in fretta di quello prima, ogni sfida è più spaventosa all'apparenza e più facile all'atto pratico di quella precedente, tutto scorre via in una danza vorticosa, i giorni si confondono, io non so più chi sono, e mi appresto a uscire dall'adolescenza senza nemmeno rendermene pienamente conto, o senza aver fatto quasi alcunché di adolescenziale. Gioventù buttata al vento.
Faccio fatica a fissare le emozioni, anche se lentamente sto ricominciando a disegnare a matita cose tangibili, dopo almeno un anno o due che facevo solo impietosi pasticci astratti di pennarelli. Di poesie, invece, nemmeno l'ombra. A volte mi sembra di trovare uno spunto, un accenno di ispirazione, ma poi mi rendo conto di non saperlo tradurre a parole con la sintesi e la disinvoltura che vorrei. E faccio fatica a dedicare tempo alla scrittura, anche se ho provato l'inusitata esperienza di scrivere un racconto, e ho già deciso nomi dei personaggi, dei luoghi, storia, finale e tutto, ma stilisticamente è povero e non comunica assolutamente nulla. E quindi neanche svolgendo i concetti in prosa riesco a comunicare in modo efficace.
Dovrei coltivare mille e una cosa per riuscire a sentirmi completa, ma so che sono troppe comunque e quindi non ci provo nemmeno. Il problema è che trascuro anche le cose che dovrei necessariamente fare, e se solo ci penso mi viene male. Dovrei murarmi nella mia stanza da quando finisco di pranzare a quando è ora di andare a letto, con solo i libri di scuola, gli spartiti, i fili del modem tagliati malamente con le cesoie e i paraocchi per assicurarmi di non perdere tempo a guardare in giro. E soprattutto senza cibo. Mi dico "Oh sì, oggi torno a casa, pranzo veloce, per le tre avrò sicuramente finito di lavare i piatti e filo immediatamente in camera a studiare in modo da aver fatto tutto entro ora di cena". Poi va a finire che i piatti li faccio alle quattro, mia madre contemporaneamente arriva, ci scambiamo le solite quattro chiacchiere d'ordinanza, alle quattro e mezza torna mio fratello dalle elementari e ne approfitto per fare merenda tutti insieme, consapevole che le schifezze più libidinose mamma le tirerà fuori in quell'occasione, e magari ci scappa anche un tè (che sistematicamente impiego un'eternità a bere per non bruciarmi la lingua). Quando sono brava, comincio a studiare alle cinque. Inevitabilmente finisco a mezzanotte e non suono nemmeno per evitare lagnanze genitoriali e nottate oltraggiose.
Ma dopo la studiatona overnight di storia e la conseguente interrogazione di domattina non dovrò pensare ai libri per un po'. Me ne vado in gita a Praga e non voglio pensare più non solo ai libri, ma a qualunque altra cosa, eccezion fatta per gli amici più stretti che subisserò di foto e i parenti a cui dovrò prendere i souvenir d'ordinanza. E anche in questo caso, se penso che è la mia ultima gita sento un gran vuoto nel petto. La vita da universitaria vale miliardi di gite per me, ma una parte di me si è fatta la strana idea che quest'ultimo viaggio ufficiosamente definito d'istruzione debba avere necessariamente un che di epico, perfetto e memorabile. In effetti si prefigura come migliore del solito, perché per una volta nelle classi che vengono insieme alla nostra ho alcuni amici con cui so che posso fare balotta. E mi hanno detto tutti che la città è bellissima, e che forse si va a ballare (e se penso che l'ultima volta che ho fatto qualcosa che si avvicinasse all'andare a ballare è stato in gita a Monaco lo scorso anno...). E ho la valigia già praticamente pronta, con forse un paio di aggiunte dell'ultimo minuto da fare, ma vedrò. E la partenza già di per sé sarà suggestiva, ché saliamo in pullman a mezzanotte e passeremo la nottata in viaggio a cercare di dormire seduti. Viaggiare di notte è magico. Ti addormenti in un posto e magari fai un sonno da trip di acidi, per cui la tua mente viaggia lontano, e al risveglio realizzi che hai viaggiato lontano anche col corpo. Sarà stato grazie al sogno? Non è che sei ancora dentro al sogno? Hai strumenti per saperlo dire con certezza? Potresti rimanere nel sogno per sempre. Poi arriva il momento del ritorno e i ricordi dei precedenti quattro o cinque giorni rimangono isolati come una bella bolla di sapone e col passare dei mesi se ne volano via nell'etere. Poi arrivano l'esame di guida, le simulazioni di prove d'esame, le studiate, la tesina, i documenti del 15 maggio, i programmi d'esame al Conservatorio, l'inizio degli esami veri e propri. Non so neanche se uscirò intera da metà delle cose sopra citate.
E non sarà che l'inizio.
E il libro di storia è ancora chiuso. Sarà bene che lo apra subito prima di rischiare davvero di fare le due di notte di nuovo.

sabato 10 gennaio 2015

Shit happens.

Non riesco a liberarmi dal casino che ho in testa. Una confusione più grande di me che prende e agita ogni mio pensiero fino a che tutto viene risucchiato e finisce per diventare esso stesso confusione.

Ho provato a calmarmi ascoltando la musica mentre giocavo a Pinball. Ho provato a smettere di cercare inutilmente di calmarmi ma comunque continuando a giocare a Pinball, il che, dato che continuavo a perdere, non faceva che accentuare il mio nervosismo. Non ho provato a distruggere cose, anche se mi piacerebbe molto, ma sono passibile di pena capitale se inizio a lanciare cose qua e là in questo momento. Vorrei tanto però. Mi sento arrabbiata contro qualunque cosa.

E dire che sono stata io a lasciare lui, e non viceversa. Dire che comunque non provavo niente se non esasperazione ogni mattina al pensiero di dover stare incollata al telefono un'altra intera giornata per stare dietro a lui. E anche dopo che l'ho lasciato, dopo aver provato e riprovato a pregarmi di ritornare con lui ché senza di me non ce la faceva, ha insistito per continuare a parlare almeno da amici. D'altra parte sono stata io a dirgli che ci sarei stata se avesse avuto bisogno di parlare con me. Ma non pensavo di essere tenuta a continuare ogni giorno a dovergli parlare costantemente, anche se metà delle cose che dice sono frasi di autocommiserazione, anche se non riesce a mettersi in testa che se non impara a staccarsi da me un minimo, col cazzo che smetterà di soffrire.

E poi deve tornare su con quella cosa della Cina e del Giappone, dicendo che sarebbe disposto a portarmici. Non ci vado nemmeno morta con lui. Non dopo che mi ha detto che avrebbe voluto sganciare bombe sull'Asia intera e che in Cina se dici una cosa diversa da quello che dovresti pensare ti impalano in mezzo a una piazza e ti danno fuoco (il tutto per convincermi a non provare a fare un viaggio in Cina con Intercultura, viaggio che poi non riuscii nemmeno a fare in ogni caso). E fottesega che adesso è cambiato ed è più adulto e non pensa più quelle cose. Non mi interessa.

Non penso che mi renderò mai realmente conto di quanto quel periodo di litigi mi abbia segnata. Altrimenti com'è che, anche se mi sembra di averlo accettato e superato, ogni volta che ci ripenso mi sale la rabbia? Sono qui che piango da almeno due ore. Quell'accesso di stupidità adolescenziale, sia mia che sua, e quella serie interminabile di discussioni senza senso (dove lui aveva torto marcio ma io ero così stupida da starlo a sentire quando avrei dovuto togliergli la parola per un bel po' di ore ogni volta) è stato la vera causa di tutto.

E' stato il motivo per cui ho rinunciato a fare la vacanza studio quell'anno, quando avevo buone probabilità di essere presa (non quella di Intercultura, quella di Valore Vacanza, che durava anche meno tempo, ma per lui non andava bene lo stesso perché si era messo in testa che andando lì avrei incontrato qualcun altro e l'avrei mollato - e invece adesso guarda un po', proprio perché non ci sono andata l'ho lasciato lo stesso).

E di conseguenza, mio padre poi decise di non lasciare per nessuna ragione che ci vedessimo (chissà se mio padre è felice di vedermi ridotta così in questo momento, ora che ha ottenuto quello che voleva. Io spero caldamente che gli si stiano consumando le interiora dal rimorso, che razza di stupido), il che sicuramente non ha aiutato la nostra relazione ad andare avanti. Anche se abbiamo tenuto botta per due lunghi anni.

E' anche stato il motivo del mio cambiamento così ampio. Sinceramente ora come ora non so dire se sia stato in meglio o in peggio. So solo che ho fatto errori grossi come il mondo in questi due anni e mezzo.

Non so cosa farei se mi fosse concesso di ripetere tutto da capo, dal momento in cui ci siamo messi insieme ad ora. Ma so che sicuramente non mi comporterei come scelsi di fare. Ed è questa la cosa che mi rode di più. Uno vorrebbe vivere la propria vita in modo da guardarsi alle spalle in qualunque momento e pensare "ah, se dovessi ricominciare da capo, rifarei tutto uguale", perché questo implicherebbe essere contenti delle proprie scelte e del proprio cammino e della situazione in cui si è, nonostante errori e altre cose del genere.

Non so cosa darei per poter ripetere tutto da capo sul serio. Fosse anche solo per il semplice gusto di arrivare alla prima litigata sul fatto che io ascoltavo i Dream Theater e a lui non andava bene, e dire "Non ti va bene così? Allora non parlarmi più, nessuno ti obbliga. Vaffanculo, e ci sentiamo quando ti sei dato una calmata. Forse.". Solo per il gusto di organizzare un incontro di nascosto ai miei (in barba ai rischi che questo avrebbe comportato) e prenderlo a schiaffi fortissimo appena lo vedevo.

E io vorrei rimanere in buoni rapporti con lui, davvero. Gli voglio bene, davvero. E' stata l'unica persona che su 900 e passa giorni, 850 li ha passati a parlare con me senza mai stancarsi, anche quando non c'era niente di cui parlare, anche quando aveva altro da fare. E' stata l'unica persona per cui io sono stata la priorità numero uno, nonché l'unica persona ad essere stata la priorità numero uno per me (anche se solo per poco, perché a una certa poi ho capito che mettere al primo posto una persona, specialmente una persona come lui, lentamente mi consumava fino all'osso). E mi dispiace arrabbiarmi ancora per queste solite vecchie maledette cose, però quando ripenso alle lacrime versate (e tra l'altro mi chiedo come sia possibile poterne versare ancora, perché credevo di averle veramente finite tutte), e al viaggio che mi sono fumata, e al tempo sprecato a parlare di perché Titanic era un film brutto, e a quanto ero dannatamente stupida, mi sento così male che vorrei scomparire.

A questo punto non so nemmeno cosa provo. Fino a ieri ero tutta tipo "no ma quello che c'è stato è stato importantissimo, e io sono cresciuta tanto stando con lui e parlandogli" e sdolcinerie di questo tipo. Adesso vorrei che tutto questo non ci fosse mai, mai stato.

Mi domando se riuscirò mai a superare seriamente questa cosa - non tanto il fatto che non stiamo più insieme, quanto le cose successe e non successe mentre stavamo insieme. E spero che un giorno rileggendo questo post o una vecchia pagina di diario o tornando a parlare della cosa, mi sorprenderò a non essere più segretamente arrabbiata per tutto ciò. Ma per adesso continuo a trattenermi dal lanciare cose qua e là, e vado a cena cercando di mantenere una faccia da persona normale.