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giovedì 20 marzo 2025

Equinoziale

Oggi mi hanno augurato buon equinoziale e mi sono ricordata che è di nuovo primavera. Un buon giorno per l'equilibrio.

Vivere a Padova fa sì che la primavera sia la stagione in assoluto più vivibile per me. D'estate è troppo caldo per fare qualsiasi cosa (anche se l'estate passata ho avuto il piacere di andare in compagnia sul Brenta varie volte, e devo dire che è stata un'ottima cosa in mancanza delle mie amate vacanze al mare), d'inverno l'ambiente che c'è qui, un po' immerso nella pianura padana, non fa che rendere tutto ancora più freddo e congelato di quanto non sarebbe già di per sé. Quest'anno, complice un misto di malanni di stagione e altri malanni fortuiti, sono stata un mese senza riuscire a stare effettivamente bene, e ho proprio sentito che l'inverno mi aveva completamente stancata, che arrivarci in fondo era come finire una maratona.

Ci sono una serie di cose che non mi legittimo a fare, una di queste è quella di andarmene dal lavoro a un certo orario se non ho un altro impegno che mi obbliga a farlo. Andare via dal lavoro per arrivare a casa e poter riposare. Ogni volta che ne avrei la possibilità fallisco nel mio intento. Non mi ricordo l'ultima volta che sono entrata in casa alle sette per rimanerci tutta la sera. Forse non mi riesco a liberare mai davvero del mio lavoro, o forse non sto così bene a casa e rifuggo il momento in cui ci arriverò. Anche oggi che era l'equinoziale ed era la giornata dell'equilibrio di tutte le cose, l'equilibrio tra le varie fette della mia vita non c'è proprio stato del tutto. Alle sette e mezza sono riuscita a schiodarmi (avrei potuto andarmene tranquillamente un'ora prima).

Un'altra cosa che non mi concedo è passare il mio tempo libero come un tempo in cui posso davvero oziare. Quando anche me lo concedo, mi sembra di sentirmi peggio. Sono così pochi i weekend in una primavera. In quanti di questi sono riuscita a passare un po' di tempo su un prato a non fare granché di costruttivo? E in quanti di questi invece (terrificante per me pensarci) il sabato mattina è arrivato e mi ha trovata paralizzata a letto senza che prima della tarda mattinata o addirittura del primo pomeriggio io riuscissi a prendere la via? Non sarebbe stato meglio se anche solo una o due di quelle volte mi fossi alzata, senza lavarmi, senza preprarmi e senza pensare troppo, e fossi andata al parco, anche se ci arrivavo a mezzogiorno e ci restavo mezz'ora?

L'equilibrio delle cose nella mia vita ultimamente gira intorno ad alcuni concetti contrapposti. La prima coppia è il binomio produttività-creatività. Dove il mio agire è volto a produrre qualcosa, devo pensarmi in un certo modo e sforzarmi, devo esibire un output quantitativo; dove invece sto creando, posso invece farmi spazio ed ascoltarmi. Ho il permesso di creare cose brutte (un'altra di quelle cose che non mi concedo mai). Se fino a qualche anno fa nei miei pensieri esprimevo il fermo proposito di utilizzare il mio tempo e le mie abilità in modo produttivo, è un po' di tempo che invece mi correggo e mi dico: il tempo libero è un tempo che può essere creativo. La parola "produttivo" la voglio abolire dal mio vocabolario dalle 18.30 alle 9.30 e nei fine settimana.

Il secondo binomio è suonare-studiare. Il mio rapporto con la musica non smette di essere torturato, la mia vita non smette di essere divisa a metà. C'è sempre uno squilibrio tra il tempo che passo a studiare e quello che passo a suonare, e c'è anche uno squilibrio in cosa studio rispetto a cosa suono. Di recente mi sono resa conto che mi sto fossilizzando molto sullo studiare solo concetti di teoria, scale, arpeggi, altri pattern tutto sommato astratti. Anche i brani che studio, quando li studio non li suono. Invece i brani che suono, non li studio. Lo studio rappresenta il focus sui dettagli, l'analisi, il perfezionismo sano che permette di raggiungere un risultato organico, la pazienza di farsi entrare una frase o una serie di passaggi nelle mani. Può essere soddisfacente, ma solo dopo un po' che ci si investono energie sopra. Il suonare è il flow, la visione d'insieme, è lasciare che quello che è stato immagazzinato scorra fuori e aggiungerci i colori e l'espressione del momento (quelli che non si stanno a studiare col gesto tecnico ma che piovono dal momento presente quando si interpreta una cosa). Tutte queste pare e poi quando suono la chitarra alle jam mi sento sempre una mezza sega, dice una voce dentro la mia testa. Mi chiedo perché quando invece canto mi sento così a mio agio e mi viene così facile. Comunque, studiare e suonare sono due attività molto diverse e me ne sono resa un po' conto, incredibilmente, perché un giorno per disperazione e nel tentativo di scacciare la sensazione di fallimento (come può esserci fallimento in un hobby? Come può non esserci fallimento in un'ambizione?), ho ripreso qualche brano di chitarra classica che studiavo ai tempi del conservatorio. Ho passato qualche giorno a studiare, è stato soddisfacente riuscire a sbrogliare qualche passaggio e adesso rispetto a 10-15 anni fa sono capace di trovare soluzioni molto più furbe per rendere tutto più fluido, e sono molto più capace di accorgermi quando è il caso di cercarle. In qualche modo per alcuni ANNI (scriverlo nero su bianco mi sembra incredibile) ho completamente mancato il punto di tutta la mia pratica musicale non basata sull'improvvisazione: farsi entrare le cose nelle mani così dopo puoi farle uscire plasmandole secondo quel che vuoi esprimere. Studiare per poter suonare, e non studiare perché si deve studiare così si diventa bravi. Come se il punto fosse mai stato qualcosa di diverso dal suonare liberamente.

Comunque oggi ho fatto del mio meglio: ho cucinato i broccoli, ho tenuto l'acqua da parte per innaffiare le piante, il mio collega mi ha detto che in questi giorni vesto con un bello stile e la mia coinquilina mi ha ringraziato per essere riuscita a sbiancare i ripiani della cucina (erano due anni che non li vedevo di quel colore), sono riuscita a fare qualche esperimento con lo slider rimanendone molto appagata (potrei o meno includere un arrangiamento di Sitting on the dock of the bay in C nel mio repertorio del busking), gli stock in glicerolo che ho scongelato sono cresciuti e ho di nuovo delle colture robuste con cui fare l'esperimento più bello che io abbia mai messo a punto in vita (e forse il più bello che avrò mai l'occasione di fare), questa settimana ero su un trend molto positivo di ritmo sonno-veglia per cui sono riuscita a dormire almeno 7 ore a notte, complice la melatonina che ho iniziato a prendere per vedere se mi cambiava qualcosa. Tra ieri sera e stasera qualcosa è andato storto, perché la prendo a un orario consono e poi, anziché coricarmi dopo mezz'ora come indicato sulla confezione, passo alcune ore a continuare a suonare (sempre interrompendomi ogni pochi minuti per guardare il telefono o fare qualcos'altro che non c'entra: come se ci fosse qualcosa di terribilmente spaventoso nell'atto di suonare) oppure a mettermi a scrivere qui. Insomma, anche se questa notte sta durando quanto il giorno successivo, per me sarà decisamente breve. Il mio ritmo sonno-veglia è un eterno solstizio scandinavo. Però sono molto contenta di essere riuscita a ricomparire su questo spazio. Oggi mi sono imbattuta in questo concetto: scrivere è pensare. E c'è qualcosa nella forma del blog, nell'interfaccia dell'editor di testo, che permette di sviluppare i nuclei di pensiero in modo diverso rispetto alla carta. Facevo caso scrivendo, proprio ora, a come si sviluppava il testo, un po' un paragrafo, un po' il paragrafo dopo, blocchi di testo che si spostano. Non come la carta, che purtroppo costringe ad un corso di pensiero completamente lineare. Erano davvero molti mesi che pensavo di scrivere qualcosa da mettere qui. Mi sono mancate forse le occasioni per farlo, forse i momenti buoni, forse il coraggio. Però posso constatare che c'è qualcosa di benefico (di creativo, appunto) nel far coalescere i miei pensieri in questa forma. Questo spazio non è forse mai davvero servito ad altro se non a permettermi di organizzare i miei pensieri in modo diverso.

martedì 11 marzo 2025

Del lavoro domestico

Oggi ero a Vergato per una toccata e fuga a causa di visite mediche varie. Un giorno un po' diverso dagli altri. Come sempre accade quando capito per casa in settimana, mia madre mi coinvolge nella routine domestica: predisporre il pranzo, mandare la lavastoviglie, stendere la lavatrice. Quindi, tornata dalle mie commissioni, prima di iniziare a preparare la pasta, mi sono messa a stendere. È un'attività abbastanza rilassante, meccanica. Stendevo i panni e pensavo a tutto e a niente, un po' come quando si medita. Poi, cercando di stendere una maglietta su un filo corto dello stendino, mi sono accorta che il filo non era abbastanza lungo perché la maglietta riuscisse a starci ben distesa. E gli altri fili lunghi erano già tutti pieni. Quindi, logicamente, ho iniziato a ridisporre un po' di panni spostandoli da un filo all'altro. E in quel momento ho realizzato che, ok, stendere i panni non è un'attività alla quale sia attribuito chissà quale valore intellettuale o cognitivo, ma ci vuole metodo per stenderli bene. Ci vuole un criterio, ci vuole cura. È proprio come fare un lavoro. Nello stesso modo in cui un muratore che si accorge di aver messo un mattone storto lo risistema, così se ci si accorge di aver steso un indumento tutto stropicciato si procede a tenderlo meglio sul filo. E proprio come tutti i lavori, si può fare male. Si può imparare a fare bene, se qualcuno te lo spiega e ti corregge. Ho pensato a come ho imparato a stendere i panni, e principalmente i mezzi sono stati due: farlo insieme a mia madre o mia nonna che mi insegnavano effettivamente, oppure farlo da sola (perché incaricata) e prendermi degli urli da mia madre o mio padre (!) che trovavano da ridire. E con gli urli piano piano impari che le cose vanno stese per bene, che meno pieghe lasci stendendo e più è facile stirare dopo, che le mollette lasciano i segni sul tessuto e quindi gli indumenti vanno piazzati in un certo modo per minimizzare l'impatto estetico.

E poi ho pensato al mio lavoro, non quello domestico, ma quello che faccio in laboratorio, e che si compone anche quello di molti accorgimenti e procedimenti molto metodici. Ho pensato a quello che faccio quando trasmetto queste procedure ad altri, per esempio colleghi che imparano una tecnica nuova oppure tesisti che seguo. Di certo non li incarico di fare qualcosa di nuovo senza la mia supervisione per poi dargli degli urli in testa quando hanno trascurato questo o quel particolare. Siamo d'accordo che sono analogie estreme: se un muratore inesperto costruisce un muro male, o se unə tesista mi contamina tutte le colture, è un guaio molto più grosso rispetto a un figlio o una figlia che stendono male i panni o non fanno bene la cucina. Però mi chiedo come cambierebbe il nostro approccio al lavoro domestico se lo pensassimo come un lavoro: non una cosa che si fa come capita, ma un compito che ha un inizio, una fine e una serie di accorgimenti e metodi precisi, con dietro delle ragioni sensate, per essere svolto bene. Cosa succederebbe se i genitori insegnassero ai figli il lavoro domestico in questo modo? Se li supervisionassero finché non fanno per bene, e ammettessero e correggessero gli errori con pazienza, come si fa con gli apprendisti? Come ce lo vivremmo il nostro lavoro domestico, se lo avessimo imparato così? Secondo me, a naso, molto meglio. È immensamente meglio fare una cosa a modo perché sai che ti aiuta a mantenere l'ordine e a minimizzare gli sforzi, rispetto al farla perché se no una mini-madre o un mini-padre nella tua testa iniziano a urlarti contro.

Spero di espandere questo ragionamento sul lavoro domestico in qualche post futuro, perché le linee di ragionamento che partono da questo pensiero che ho avuto oggi sono svariate. La principale che mi viene in mente è, sempre facendo un'analogia con il lavoro in laboratorio, che come nelle professioni, anche nel lavoro domestico si costituiscono dei ruoli. Qualcuno coordina, qualcuno esegue, chi esegue può essere più o meno partecipe dei motivi per cui deve fare una certa cosa in un certo modo. Quando si parla del carico mentale legato al lavoro domestico, si parla proprio di questo: chi coordina ha un ruolo più pesante, e in casa spesso chi prova a coordinare è anche l'unica persona che ha in mente lo stato in cui dovrebbe essere mantenuta la casa. Me lo lascio come auto-promemoria. Ci penserò su.

venerdì 24 marzo 2023

Late twenties freaking funk machine. (Decostruzione)

Gli early twenties mi hanno tirata sotto come un treno. Padova pure. Alcuni mesi dopo essermi trasferita qui ho toccato il mio punto più basso a livello personale, di autostima, di impressioni sul mio percorso. Guardavo a tutto ciò che ero in quel momento e a tutti i passi che mi avevano portato lì, e mi sentivo quasi come se ognuna delle tantissime cose che ho intrapreso nella vita non fosse servita a nulla, come se tutte quelle traiettorie convergessero nella singolarità estremamente misera e incapace che ero io in quel momento e si spegnessero nel nulla. Poi, in realtà, più ci rifletto, più concludo che tutto ciò che non andava in me all'epoca aveva delle radici molto più indietro nel tempo. Forse il vivere da sola e il cambio radicale di routine letteralmente da un giorno all'altro hanno fatto venire tutto a galla di colpo. Sì, letteralmente. Ora che ci penso non c'è stato un adattamento, un percorso graduale: semplicemente un giorno ero a casa dei miei, anzi casa mia, a fare la vita da gatto post-lauream, coccolata dalla mia famiglia; e il giorno dopo ero a Padova, in pieno novembre, in una stanza piccola, spoglia e onestamente davvero fredda, a tre ore di distanza da tutto ciò che mi era più familiare. In quel momento della mia vita avevo già superato molte cose che mi avevano dato problemi, pensavo di essere in una condizione molto migliore di tanti altri periodi, pensavo di non avere poi tanto di cui lamentarmi. E invece mi sono ritrovata completamente smarrita.

Ogni tanto penso alla me di allora; penso che adesso saprei cosa dirle, cosa farle fare. Sto ancora facendo i conti con tante abitudini pessime e con tanti meccanismi che non sono ancora riuscita a decostruire. Qualche volta sento una fitta allo stomaco per un pensiero che si origina da qualche complesso indigesto, da qualche imprinting lontano. Ma dura sempre poco. Si tratta di quel genere di pensieri che fino all'inizio dei 20 mi tornavano su ogni qualche settimana, appena non avevo troppo da fare, e mi pervadeva completamente. Adesso è tutto così diverso. La cosa veramente assurda è che da quando ho iniziato terapia non piango quasi più. Ovviamente c'è voluto un po', ma neanche così tanto quanto avrei immaginato. Niente magone gratis. Niente stesse 5 preoccupazioni che si ripresentano a rotazione indipendentemente dal progresso che io possa aver fatto a riguardo. Non penso di esagerare nel dire che lo stare male ciclicamente mi definiva, quasi come se facesse parte della mia personalità. Poi un giorno ho pensato "cavolo, ma io una volta piangevo ogni mese per la stessa cosa".

Punto che secondo me è abbastanza importante, adesso suono di nuovo. Madonna se suono! Sto ancora cercando di capire come suono, perché suono, cosa voglio fare di questa mia abilità. La risposta potrebbe essere anche: niente di concreto, nel senso più orientato alla produttività del termine. Il che mi libererebbe definitivamente da uno dei pochi leitmotif rimasti a provocarmi quelle famose fitte allo stomaco: la paura di non suonare abbastanza bene rispetto al tempo che ho passato a studiare. Di non essere all'altezza di me stessa. L'elettrica è un mondo completamente diverso in cui sono entrata tardissimo. Non so se riuscirò mai a capire quando il mio suono è decente e quando fa schifo, o se avrò mai una pedaliera decente, o se saprò mai sfornare dei lick deliziosi a istinto appena prendo la chitarra in mano. Penso a queste cose, a gente della mia età che le sa fare, e mi sento all'improvviso piccola piccola e piena di paura e inadeguatezza. Poi guardo a me stessa un anno e mezzo fa, che entro in aula per la prima lezione di musica dopo anni che sembravano secoli, sull'orlo delle lacrime, dosando ogni parola e ogni gesto per non scoppiare a piangere così de botto senza senso, perché ricominciare a suonare era ciò che volevo più di ogni cosa e al tempo stesso ciò che più mi mancava il coraggio di fare. Mi mancava il coraggio così tanto che il desiderio di suonare l'avevo represso a forza dopo aver lasciato il conservatorio, sommerso nel diniego più assoluto. Mi ripetevo che se davvero avessi voluto riprendere mi sarei messa lì con costanza, e il fatto che non lo facessi significava semplicemente che non mi meritavo degli stimoli, delle lezioni, uno strumento diverso. E invece non funziona così, perché le cose che hanno un grande significato non si possono fare da soli. E quindi via, ho cominciato con le lezioni fuori dalla mentalità accademica (che comunque mi porto pesantemente sulle spalle e sto cercando di scrollarmela un po' di dosso, con fatica), ho iniziato a frequentare persone che suonavano (probabilmente ciò che avrei dovuto fare molto di più in passato) e quando non mi sento piccola impaurita e inadeguata, mi diverto anche molto. Padova da questo punto di vista è ricca di stimoli. E le persone intorno a me sono contente se ci sono io a suonare con loro.

Il sostegno degli altri è un'altra grande cosa che adesso mi arriva con la prorompenza del sole primaverile, e probabilmente era sempre stata lì, per tutto quel tempo in cui ogni qualche settimana pensavo di essere sola e incapace e piangevo, ma io non la vedevo. Il guscio in cui ero chiusa era esternamente decorato da un'aura di invincibilità che mi rendeva inavvicinabile. Io mi sono sempre sentita vulnerabile. Appena ho iniziato a manifestarlo, le reazioni degli altri intorno a me erano quasi incredule. Mi sono resa conto che, nonostante io tenda a pensarmi come una persona molto estroversa, in realtà non ho mai esternato troppo i miei bisogni emotivi, a meno che non fossi sull'orlo della crisi. Eppure, ultimamente mi rendo conto che tutte le persone che fanno parte della mia vita hanno sempre creduto in me, anche quando io non ero presente o quando non mi sarei neanche sognata di chiedere un incoraggiamento.

Gli early twenties sono passati per me. Quando penso che sono sempre più vicina ai 30 e non ho ancora la minima idea di come si conduca una vita da adulta mi prende un po' male. Del resto, forse, il concetto di cos'è un adulto e come dovrebbe vivere per essere rispettabile non è che l'ennesima aspettativa da decostruire.

sabato 6 agosto 2022

Ragionamenti barcellonesi

Dopo questa settimana ho un po' bisogno di decomprimere. Di non lasciare che le cose continuino a succedere una dopo l'altra e le cose più nuove sovrascrivano subito quelle vecchie, in queste ferie al cardiopalma dove dovrei riposarmi ma in realtà mi ritrovo a girare come una trottola.

Un po' ho anche bisogno di capire cosa succede esattamente alle mie emozioni. Ultimamente faccio fatica a sentirle.

Barcellona è stata la città dove ho fatto l'erasmus. Il problema è che l'erasmus è iniziato a febbraio 2020. Ho vissuto normalmente per un mese, poi all'improvviso ha chiuso tutto. Avevo un laboratorio dove stavo facendo il tirocinio. Già non mi sembrava di essere partita granché bene, dopo essere rimasti bloccati a casa una parte di me ha completamente smesso di funzionare e il tirocinio è andato uno schifo, essenzialmente perché non lavoravo. Ormai sono due anni che continuo a ripensare a che tesi ridicola ho portato alla laurea e a quanto mi sono scudisciata nella schiena per questo. Ancora non ne vengo a capo, né riesco a perdonarmi. Sta di fatto che il resto dell'erasmus è stato, più di tutto, le quattro mura estremamente blu della mia camera, quattro come le persone con cui ho passato il lockdown e con cui, com'era naturale, si passava il tempo a sbronzarsi, allenarsi, ascoltare musica e guardare cose alla TV. Solo che era speciale, perché eravamo in una situazione di crisi fuori dall'ordinario, a livello individuale e mondiale. Quindi dietro a tutto il tempo che ho passato lì c'è stato un vissuto emozionale molto forte.

Quando abbiamo preso l'aereo sabato scorso e ho realizzato che stavo ritornando a Barcellona, mi sono sentita piuttosto euforica. Non vedevo l'ora di tornare a passeggiare per tutte le strade a cui avevo agganciato dei ricordi, che fossero pre-lockdown o posteriori, di quando era comunque tutto chiuso ma si poteva di nuovo uscire a passeggiare e vedere altri esseri umani. Solo per vedere un po' la città nel suo complesso le giornate a nostra disposizione si sono riempite, tanto che sembravano lunghe come intere settimane. Camminavamo ventimila passi al giorno e facevamo in modo e maniera di mangiare patatas bravas in un posto diverso ogni giorno. Ci sparavamo tutti i monumenti e i siti di interesse che potevamo, nei limiti del viverci comunque questa settimana con dei ritmi umani. E comunque per tutto il tempo in cui siamo stati lì mi sentivo perfettamente a mio agio. Barcellona è una città che ho desiderato estremamente conoscere fin da quando ho iniziato ad abitarci, ed è una conoscenza che si può approfondire all'infinito, dalla storia urbanistica, agli eventi più importanti, alle storie dei singoli quartieri. Una volta che me l'hanno un po' spiegata, l'ho capita e la sento mia, al contrario di altre città che invece non sono mai riuscita a farmi entrare in testa. Solo che poi, quando è stato il momento di ritornare in Italia, non ho provato neanche un briciolo di nostalgia, come se tutto fosse avvenuto in modo meccanico, oserei dire perfino meccanicistico. Sveglia, fare colazione, fare valigie, prendere aereo. Tutto come programmato. Mi sembra così strano essere privata di questo sentimento, proprio in questo periodo, in cui mi sembra che tutte le mie emozioni siano come attutite, e proprio dopo essere tornata da Barcellona, che è il fulcro di tante cose che mi sono successe a livello interiore. Di solito sentire il carrello dell'aereo che si stacca da terra mi riscuote sempre da qualunque torpore, mi fa capire che sì, sta succedendo davvero, sto viaggiando, e mi sembra quasi che la sensazione della terra che mi attira a sé sia un invito a lasciarmi andare alla nostalgia e a non partire, e che lo strappo che dà l'aereo al decollo sia il corso inarrestabile del mio destino. Di solito me lo sento nella pancia. Stavolta niente.

Non so, forse è che non sono finite le vacanze e ho ancora due settimane di posti e persone da vedere davanti a me. Forse è che Barcellona ormai la sento come una delle tante case del mio cuore, ed è come se sapessi già che ci tornerò. Forse è davvero parte di quel pattern per cui non riesco più a sentire le cose altrettanto genuinamente rispetto al passato, e sto ancora cercando di capire quale problema stia al fondo di questo sintomo, ma non è per nulla facile. I pensieri si collegano l'uno all'altro, ma più che una catena logica finiscono per formare un groviglio infinito dove mi sembra sempre di ripassare per gli stessi punti. E forse anche questo viaggio, più che una semplice vacanza, è stato un cercare di ripassare da un punto sperando di ritrovare qualcosa.

martedì 26 novembre 2019

REG 6344

Time heals,
Time deletes
Time rises and retreats
And like the tide it brings
afloat, and it buries -
Eternally stirring
to merge and divide,
Eternally recurring.

Fear not,
sand grain of mine.

venerdì 8 novembre 2019

REG 11614

È un sole più nuovo
a far breccia
nell'incantesimo della nebbia,
colta in flagrante nella valle intorpidita.
Coi suoi dardi la sfida,
ne scioglie il mistero -
E adesso che in me
è risvegliato il canto,
possa io essere il bardo
a raccontarne le gesta.

giovedì 21 marzo 2019

Flussi fuori sede.

Ogni tanto mi rendo conto di star abbracciando, negli ultimi tempi, cambiamenti più grandi di me, soprattutto perché tanto repentini. Non che io non mi sentissi in qualche modo già pronta. C'è una parte di me che ogni volta aspetta, segretamente, silenziosamente, che le circostanze siano giuste, e quando i cambiamenti necessari arrivano spinge il mio entusiasmo come un fiume in piena. A volte sono solo torrenti, ma ora è completamente diverso.

Ci sono giorni in cui nella mia mente è primavera, ed ogni stimolo fa fiorire mille nuove idee, ed ogni idea si realizza con veemenza, ed ogni briciolo di energia che impiego mi motiva a spenderne altri cento. Ogni nuova canzone diventa la mia canzone preferita per qualche giorno. Imparo di nuovo i testi a memoria. Suono e canto di nuovo. Ballo per tutta la notte e ritorno a casa completamente sobria, in bici, alle sei del mattino. Cucino un'infinità di piatti, affettando le verdure il più sottile possibile. Mi circondo di tutto ciò che a contatto con la mia anima vibra per simpatia.

Ci sono notti in cui, se il mare sono io e il fiume è tutto ciò che mi spinge a cambiare, il mio passato tiepidamente risale su per la foce come una marea, rimescolandosi con il presente, facendomi dimenticare di chi sono e ricordandomelo al tempo stesso. Ritorno a rimuginare sulle stesse cose, ad affezionarmi alle stesse canzoni di sempre, a ripensare alle stesse persone e a domandarmi perché le cose vanno come vanno. Ricado nelle mie cattive abitudini, a volte peggiorandole ancora.

Mi assale una grande confusione quando penso all'enormità di realtà, volti, storie, persone, contesti che ho incontrato negli ultimi anni, quantità che cresce in maniera esponenziale col passare del tempo. Mi impressiona, guardando indietro a un qualunque periodo della mia vita, constatare che l'insieme delle mie attività e delle persone che mi circondavano era sempre diverso, salvo rarissimi capisaldi. E pure mi ostino a non lasciar andare via nulla, a conservare sempre tutto, come gli scontrini ed i biglietti che tenevo prima in una borsetta a tracolla, poi ho trasferito in una piccola scatola, e chissà quando arriverò al punto di aver bisogno di una scatola più grande, e poi ancora di un'intera stanza.

Tuttavia, man mano che allargo il mio spettro di conoscenze -- che si tratti di persone, cultura generale o saperi accademici -- divento cosciente di legami e associazioni tra le cose più insospettabili. Forse ostinarsi a conservare sempre tutto può valere qualcosa? E quando sarà raggiunto il compromesso tra la mia personale serenità, dipendente dal soddisfare la mia mania di conservazione, e la quantità di conoscenze che sono mentalmente in grado di gestire?
Forse che, come ne La Storia Infinita, ogni volta che soddisfo un impulso a cambiare, dimentico qualcosa su chi ero prima? Così come tutte le cellule del mio corpo vengono sostituite in un arco di tempo finito, anche il mio stesso essere potrebbe sostituirsi a se stesso pezzo dopo pezzo fino a non essere più quello di partenza?

Forse dovrei iniziare una volta per tutte ad andare a letto presto e basta.