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venerdì 24 marzo 2023

Late twenties freaking funk machine. (Decostruzione)

Gli early twenties mi hanno tirata sotto come un treno. Padova pure. Alcuni mesi dopo essermi trasferita qui ho toccato il mio punto più basso a livello personale, di autostima, di impressioni sul mio percorso. Guardavo a tutto ciò che ero in quel momento e a tutti i passi che mi avevano portato lì, e mi sentivo quasi come se ognuna delle tantissime cose che ho intrapreso nella vita non fosse servita a nulla, come se tutte quelle traiettorie convergessero nella singolarità estremamente misera e incapace che ero io in quel momento e si spegnessero nel nulla. Poi, in realtà, più ci rifletto, più concludo che tutto ciò che non andava in me all'epoca aveva delle radici molto più indietro nel tempo. Forse il vivere da sola e il cambio radicale di routine letteralmente da un giorno all'altro hanno fatto venire tutto a galla di colpo. Sì, letteralmente. Ora che ci penso non c'è stato un adattamento, un percorso graduale: semplicemente un giorno ero a casa dei miei, anzi casa mia, a fare la vita da gatto post-lauream, coccolata dalla mia famiglia; e il giorno dopo ero a Padova, in pieno novembre, in una stanza piccola, spoglia e onestamente davvero fredda, a tre ore di distanza da tutto ciò che mi era più familiare. In quel momento della mia vita avevo già superato molte cose che mi avevano dato problemi, pensavo di essere in una condizione molto migliore di tanti altri periodi, pensavo di non avere poi tanto di cui lamentarmi. E invece mi sono ritrovata completamente smarrita.

Ogni tanto penso alla me di allora; penso che adesso saprei cosa dirle, cosa farle fare. Sto ancora facendo i conti con tante abitudini pessime e con tanti meccanismi che non sono ancora riuscita a decostruire. Qualche volta sento una fitta allo stomaco per un pensiero che si origina da qualche complesso indigesto, da qualche imprinting lontano. Ma dura sempre poco. Si tratta di quel genere di pensieri che fino all'inizio dei 20 mi tornavano su ogni qualche settimana, appena non avevo troppo da fare, e mi pervadeva completamente. Adesso è tutto così diverso. La cosa veramente assurda è che da quando ho iniziato terapia non piango quasi più. Ovviamente c'è voluto un po', ma neanche così tanto quanto avrei immaginato. Niente magone gratis. Niente stesse 5 preoccupazioni che si ripresentano a rotazione indipendentemente dal progresso che io possa aver fatto a riguardo. Non penso di esagerare nel dire che lo stare male ciclicamente mi definiva, quasi come se facesse parte della mia personalità. Poi un giorno ho pensato "cavolo, ma io una volta piangevo ogni mese per la stessa cosa".

Punto che secondo me è abbastanza importante, adesso suono di nuovo. Madonna se suono! Sto ancora cercando di capire come suono, perché suono, cosa voglio fare di questa mia abilità. La risposta potrebbe essere anche: niente di concreto, nel senso più orientato alla produttività del termine. Il che mi libererebbe definitivamente da uno dei pochi leitmotif rimasti a provocarmi quelle famose fitte allo stomaco: la paura di non suonare abbastanza bene rispetto al tempo che ho passato a studiare. Di non essere all'altezza di me stessa. L'elettrica è un mondo completamente diverso in cui sono entrata tardissimo. Non so se riuscirò mai a capire quando il mio suono è decente e quando fa schifo, o se avrò mai una pedaliera decente, o se saprò mai sfornare dei lick deliziosi a istinto appena prendo la chitarra in mano. Penso a queste cose, a gente della mia età che le sa fare, e mi sento all'improvviso piccola piccola e piena di paura e inadeguatezza. Poi guardo a me stessa un anno e mezzo fa, che entro in aula per la prima lezione di musica dopo anni che sembravano secoli, sull'orlo delle lacrime, dosando ogni parola e ogni gesto per non scoppiare a piangere così de botto senza senso, perché ricominciare a suonare era ciò che volevo più di ogni cosa e al tempo stesso ciò che più mi mancava il coraggio di fare. Mi mancava il coraggio così tanto che il desiderio di suonare l'avevo represso a forza dopo aver lasciato il conservatorio, sommerso nel diniego più assoluto. Mi ripetevo che se davvero avessi voluto riprendere mi sarei messa lì con costanza, e il fatto che non lo facessi significava semplicemente che non mi meritavo degli stimoli, delle lezioni, uno strumento diverso. E invece non funziona così, perché le cose che hanno un grande significato non si possono fare da soli. E quindi via, ho cominciato con le lezioni fuori dalla mentalità accademica (che comunque mi porto pesantemente sulle spalle e sto cercando di scrollarmela un po' di dosso, con fatica), ho iniziato a frequentare persone che suonavano (probabilmente ciò che avrei dovuto fare molto di più in passato) e quando non mi sento piccola impaurita e inadeguata, mi diverto anche molto. Padova da questo punto di vista è ricca di stimoli. E le persone intorno a me sono contente se ci sono io a suonare con loro.

Il sostegno degli altri è un'altra grande cosa che adesso mi arriva con la prorompenza del sole primaverile, e probabilmente era sempre stata lì, per tutto quel tempo in cui ogni qualche settimana pensavo di essere sola e incapace e piangevo, ma io non la vedevo. Il guscio in cui ero chiusa era esternamente decorato da un'aura di invincibilità che mi rendeva inavvicinabile. Io mi sono sempre sentita vulnerabile. Appena ho iniziato a manifestarlo, le reazioni degli altri intorno a me erano quasi incredule. Mi sono resa conto che, nonostante io tenda a pensarmi come una persona molto estroversa, in realtà non ho mai esternato troppo i miei bisogni emotivi, a meno che non fossi sull'orlo della crisi. Eppure, ultimamente mi rendo conto che tutte le persone che fanno parte della mia vita hanno sempre creduto in me, anche quando io non ero presente o quando non mi sarei neanche sognata di chiedere un incoraggiamento.

Gli early twenties sono passati per me. Quando penso che sono sempre più vicina ai 30 e non ho ancora la minima idea di come si conduca una vita da adulta mi prende un po' male. Del resto, forse, il concetto di cos'è un adulto e come dovrebbe vivere per essere rispettabile non è che l'ennesima aspettativa da decostruire.

sabato 6 agosto 2022

Ragionamenti barcellonesi

Dopo questa settimana ho un po' bisogno di decomprimere. Di non lasciare che le cose continuino a succedere una dopo l'altra e le cose più nuove sovrascrivano subito quelle vecchie, in queste ferie al cardiopalma dove dovrei riposarmi ma in realtà mi ritrovo a girare come una trottola.

Un po' ho anche bisogno di capire cosa succede esattamente alle mie emozioni. Ultimamente faccio fatica a sentirle.

Barcellona è stata la città dove ho fatto l'erasmus. Il problema è che l'erasmus è iniziato a febbraio 2020. Ho vissuto normalmente per un mese, poi all'improvviso ha chiuso tutto. Avevo un laboratorio dove stavo facendo il tirocinio. Già non mi sembrava di essere partita granché bene, dopo essere rimasti bloccati a casa una parte di me ha completamente smesso di funzionare e il tirocinio è andato uno schifo, essenzialmente perché non lavoravo. Ormai sono due anni che continuo a ripensare a che tesi ridicola ho portato alla laurea e a quanto mi sono scudisciata nella schiena per questo. Ancora non ne vengo a capo, né riesco a perdonarmi. Sta di fatto che il resto dell'erasmus è stato, più di tutto, le quattro mura estremamente blu della mia camera, quattro come le persone con cui ho passato il lockdown e con cui, com'era naturale, si passava il tempo a sbronzarsi, allenarsi, ascoltare musica e guardare cose alla TV. Solo che era speciale, perché eravamo in una situazione di crisi fuori dall'ordinario, a livello individuale e mondiale. Quindi dietro a tutto il tempo che ho passato lì c'è stato un vissuto emozionale molto forte.

Quando abbiamo preso l'aereo sabato scorso e ho realizzato che stavo ritornando a Barcellona, mi sono sentita piuttosto euforica. Non vedevo l'ora di tornare a passeggiare per tutte le strade a cui avevo agganciato dei ricordi, che fossero pre-lockdown o posteriori, di quando era comunque tutto chiuso ma si poteva di nuovo uscire a passeggiare e vedere altri esseri umani. Solo per vedere un po' la città nel suo complesso le giornate a nostra disposizione si sono riempite, tanto che sembravano lunghe come intere settimane. Camminavamo ventimila passi al giorno e facevamo in modo e maniera di mangiare patatas bravas in un posto diverso ogni giorno. Ci sparavamo tutti i monumenti e i siti di interesse che potevamo, nei limiti del viverci comunque questa settimana con dei ritmi umani. E comunque per tutto il tempo in cui siamo stati lì mi sentivo perfettamente a mio agio. Barcellona è una città che ho desiderato estremamente conoscere fin da quando ho iniziato ad abitarci, ed è una conoscenza che si può approfondire all'infinito, dalla storia urbanistica, agli eventi più importanti, alle storie dei singoli quartieri. Una volta che me l'hanno un po' spiegata, l'ho capita e la sento mia, al contrario di altre città che invece non sono mai riuscita a farmi entrare in testa. Solo che poi, quando è stato il momento di ritornare in Italia, non ho provato neanche un briciolo di nostalgia, come se tutto fosse avvenuto in modo meccanico, oserei dire perfino meccanicistico. Sveglia, fare colazione, fare valigie, prendere aereo. Tutto come programmato. Mi sembra così strano essere privata di questo sentimento, proprio in questo periodo, in cui mi sembra che tutte le mie emozioni siano come attutite, e proprio dopo essere tornata da Barcellona, che è il fulcro di tante cose che mi sono successe a livello interiore. Di solito sentire il carrello dell'aereo che si stacca da terra mi riscuote sempre da qualunque torpore, mi fa capire che sì, sta succedendo davvero, sto viaggiando, e mi sembra quasi che la sensazione della terra che mi attira a sé sia un invito a lasciarmi andare alla nostalgia e a non partire, e che lo strappo che dà l'aereo al decollo sia il corso inarrestabile del mio destino. Di solito me lo sento nella pancia. Stavolta niente.

Non so, forse è che non sono finite le vacanze e ho ancora due settimane di posti e persone da vedere davanti a me. Forse è che Barcellona ormai la sento come una delle tante case del mio cuore, ed è come se sapessi già che ci tornerò. Forse è davvero parte di quel pattern per cui non riesco più a sentire le cose altrettanto genuinamente rispetto al passato, e sto ancora cercando di capire quale problema stia al fondo di questo sintomo, ma non è per nulla facile. I pensieri si collegano l'uno all'altro, ma più che una catena logica finiscono per formare un groviglio infinito dove mi sembra sempre di ripassare per gli stessi punti. E forse anche questo viaggio, più che una semplice vacanza, è stato un cercare di ripassare da un punto sperando di ritrovare qualcosa.