Cerca

giovedì 20 marzo 2025

Equinoziale

Oggi mi hanno augurato buon equinoziale e mi sono ricordata che è di nuovo primavera. Un buon giorno per l'equilibrio.

Vivere a Padova fa sì che la primavera sia la stagione in assoluto più vivibile per me. D'estate è troppo caldo per fare qualsiasi cosa (anche se l'estate passata ho avuto il piacere di andare in compagnia sul Brenta varie volte, e devo dire che è stata un'ottima cosa in mancanza delle mie amate vacanze al mare), d'inverno l'ambiente che c'è qui, un po' immerso nella pianura padana, non fa che rendere tutto ancora più freddo e congelato di quanto non sarebbe già di per sé. Quest'anno, complice un misto di malanni di stagione e altri malanni fortuiti, sono stata un mese senza riuscire a stare effettivamente bene, e ho proprio sentito che l'inverno mi aveva completamente stancata, che arrivarci in fondo era come finire una maratona.

Ci sono una serie di cose che non mi legittimo a fare, una di queste è quella di andarmene dal lavoro a un certo orario se non ho un altro impegno che mi obbliga a farlo. Andare via dal lavoro per arrivare a casa e poter riposare. Ogni volta che ne avrei la possibilità fallisco nel mio intento. Non mi ricordo l'ultima volta che sono entrata in casa alle sette per rimanerci tutta la sera. Forse non mi riesco a liberare mai davvero del mio lavoro, o forse non sto così bene a casa e rifuggo il momento in cui ci arriverò. Anche oggi che era l'equinoziale ed era la giornata dell'equilibrio di tutte le cose, l'equilibrio tra le varie fette della mia vita non c'è proprio stato del tutto. Alle sette e mezza sono riuscita a schiodarmi (avrei potuto andarmene tranquillamente un'ora prima).

Un'altra cosa che non mi concedo è passare il mio tempo libero come un tempo in cui posso davvero oziare. Quando anche me lo concedo, mi sembra di sentirmi peggio. Sono così pochi i weekend in una primavera. In quanti di questi sono riuscita a passare un po' di tempo su un prato a non fare granché di costruttivo? E in quanti di questi invece (terrificante per me pensarci) il sabato mattina è arrivato e mi ha trovata paralizzata a letto senza che prima della tarda mattinata o addirittura del primo pomeriggio io riuscissi a prendere la via? Non sarebbe stato meglio se anche solo una o due di quelle volte mi fossi alzata, senza lavarmi, senza preprarmi e senza pensare troppo, e fossi andata al parco, anche se ci arrivavo a mezzogiorno e ci restavo mezz'ora?

L'equilibrio delle cose nella mia vita ultimamente gira intorno ad alcuni concetti contrapposti. La prima coppia è il binomio produttività-creatività. Dove il mio agire è volto a produrre qualcosa, devo pensarmi in un certo modo e sforzarmi, devo esibire un output quantitativo; dove invece sto creando, posso invece farmi spazio ed ascoltarmi. Ho il permesso di creare cose brutte (un'altra di quelle cose che non mi concedo mai). Se fino a qualche anno fa nei miei pensieri esprimevo il fermo proposito di utilizzare il mio tempo e le mie abilità in modo produttivo, è un po' di tempo che invece mi correggo e mi dico: il tempo libero è un tempo che può essere creativo. La parola "produttivo" la voglio abolire dal mio vocabolario dalle 18.30 alle 9.30 e nei fine settimana.

Il secondo binomio è suonare-studiare. Il mio rapporto con la musica non smette di essere torturato, la mia vita non smette di essere divisa a metà. C'è sempre uno squilibrio tra il tempo che passo a studiare e quello che passo a suonare, e c'è anche uno squilibrio in cosa studio rispetto a cosa suono. Di recente mi sono resa conto che mi sto fossilizzando molto sullo studiare solo concetti di teoria, scale, arpeggi, altri pattern tutto sommato astratti. Anche i brani che studio, quando li studio non li suono. Invece i brani che suono, non li studio. Lo studio rappresenta il focus sui dettagli, l'analisi, il perfezionismo sano che permette di raggiungere un risultato organico, la pazienza di farsi entrare una frase o una serie di passaggi nelle mani. Può essere soddisfacente, ma solo dopo un po' che ci si investono energie sopra. Il suonare è il flow, la visione d'insieme, è lasciare che quello che è stato immagazzinato scorra fuori e aggiungerci i colori e l'espressione del momento (quelli che non si stanno a studiare col gesto tecnico ma che piovono dal momento presente quando si interpreta una cosa). Tutte queste pare e poi quando suono la chitarra alle jam mi sento sempre una mezza sega, dice una voce dentro la mia testa. Mi chiedo perché quando invece canto mi sento così a mio agio e mi viene così facile. Comunque, studiare e suonare sono due attività molto diverse e me ne sono resa un po' conto, incredibilmente, perché un giorno per disperazione e nel tentativo di scacciare la sensazione di fallimento (come può esserci fallimento in un hobby? Come può non esserci fallimento in un'ambizione?), ho ripreso qualche brano di chitarra classica che studiavo ai tempi del conservatorio. Ho passato qualche giorno a studiare, è stato soddisfacente riuscire a sbrogliare qualche passaggio e adesso rispetto a 10-15 anni fa sono capace di trovare soluzioni molto più furbe per rendere tutto più fluido, e sono molto più capace di accorgermi quando è il caso di cercarle. In qualche modo per alcuni ANNI (scriverlo nero su bianco mi sembra incredibile) ho completamente mancato il punto di tutta la mia pratica musicale non basata sull'improvvisazione: farsi entrare le cose nelle mani così dopo puoi farle uscire plasmandole secondo quel che vuoi esprimere. Studiare per poter suonare, e non studiare perché si deve studiare così si diventa bravi. Come se il punto fosse mai stato qualcosa di diverso dal suonare liberamente.

Comunque oggi ho fatto del mio meglio: ho cucinato i broccoli, ho tenuto l'acqua da parte per innaffiare le piante, il mio collega mi ha detto che in questi giorni vesto con un bello stile e la mia coinquilina mi ha ringraziato per essere riuscita a sbiancare i ripiani della cucina (erano due anni che non li vedevo di quel colore), sono riuscita a fare qualche esperimento con lo slider rimanendone molto appagata (potrei o meno includere un arrangiamento di Sitting on the dock of the bay in C nel mio repertorio del busking), gli stock in glicerolo che ho scongelato sono cresciuti e ho di nuovo delle colture robuste con cui fare l'esperimento più bello che io abbia mai messo a punto in vita (e forse il più bello che avrò mai l'occasione di fare), questa settimana ero su un trend molto positivo di ritmo sonno-veglia per cui sono riuscita a dormire almeno 7 ore a notte, complice la melatonina che ho iniziato a prendere per vedere se mi cambiava qualcosa. Tra ieri sera e stasera qualcosa è andato storto, perché la prendo a un orario consono e poi, anziché coricarmi dopo mezz'ora come indicato sulla confezione, passo alcune ore a continuare a suonare (sempre interrompendomi ogni pochi minuti per guardare il telefono o fare qualcos'altro che non c'entra: come se ci fosse qualcosa di terribilmente spaventoso nell'atto di suonare) oppure a mettermi a scrivere qui. Insomma, anche se questa notte sta durando quanto il giorno successivo, per me sarà decisamente breve. Il mio ritmo sonno-veglia è un eterno solstizio scandinavo. Però sono molto contenta di essere riuscita a ricomparire su questo spazio. Oggi mi sono imbattuta in questo concetto: scrivere è pensare. E c'è qualcosa nella forma del blog, nell'interfaccia dell'editor di testo, che permette di sviluppare i nuclei di pensiero in modo diverso rispetto alla carta. Facevo caso scrivendo, proprio ora, a come si sviluppava il testo, un po' un paragrafo, un po' il paragrafo dopo, blocchi di testo che si spostano. Non come la carta, che purtroppo costringe ad un corso di pensiero completamente lineare. Erano davvero molti mesi che pensavo di scrivere qualcosa da mettere qui. Mi sono mancate forse le occasioni per farlo, forse i momenti buoni, forse il coraggio. Però posso constatare che c'è qualcosa di benefico (di creativo, appunto) nel far coalescere i miei pensieri in questa forma. Questo spazio non è forse mai davvero servito ad altro se non a permettermi di organizzare i miei pensieri in modo diverso.

martedì 11 marzo 2025

Del lavoro domestico

Oggi ero a Vergato per una toccata e fuga a causa di visite mediche varie. Un giorno un po' diverso dagli altri. Come sempre accade quando capito per casa in settimana, mia madre mi coinvolge nella routine domestica: predisporre il pranzo, mandare la lavastoviglie, stendere la lavatrice. Quindi, tornata dalle mie commissioni, prima di iniziare a preparare la pasta, mi sono messa a stendere. È un'attività abbastanza rilassante, meccanica. Stendevo i panni e pensavo a tutto e a niente, un po' come quando si medita. Poi, cercando di stendere una maglietta su un filo corto dello stendino, mi sono accorta che il filo non era abbastanza lungo perché la maglietta riuscisse a starci ben distesa. E gli altri fili lunghi erano già tutti pieni. Quindi, logicamente, ho iniziato a ridisporre un po' di panni spostandoli da un filo all'altro. E in quel momento ho realizzato che, ok, stendere i panni non è un'attività alla quale sia attribuito chissà quale valore intellettuale o cognitivo, ma ci vuole metodo per stenderli bene. Ci vuole un criterio, ci vuole cura. È proprio come fare un lavoro. Nello stesso modo in cui un muratore che si accorge di aver messo un mattone storto lo risistema, così se ci si accorge di aver steso un indumento tutto stropicciato si procede a tenderlo meglio sul filo. E proprio come tutti i lavori, si può fare male. Si può imparare a fare bene, se qualcuno te lo spiega e ti corregge. Ho pensato a come ho imparato a stendere i panni, e principalmente i mezzi sono stati due: farlo insieme a mia madre o mia nonna che mi insegnavano effettivamente, oppure farlo da sola (perché incaricata) e prendermi degli urli da mia madre o mio padre (!) che trovavano da ridire. E con gli urli piano piano impari che le cose vanno stese per bene, che meno pieghe lasci stendendo e più è facile stirare dopo, che le mollette lasciano i segni sul tessuto e quindi gli indumenti vanno piazzati in un certo modo per minimizzare l'impatto estetico.

E poi ho pensato al mio lavoro, non quello domestico, ma quello che faccio in laboratorio, e che si compone anche quello di molti accorgimenti e procedimenti molto metodici. Ho pensato a quello che faccio quando trasmetto queste procedure ad altri, per esempio colleghi che imparano una tecnica nuova oppure tesisti che seguo. Di certo non li incarico di fare qualcosa di nuovo senza la mia supervisione per poi dargli degli urli in testa quando hanno trascurato questo o quel particolare. Siamo d'accordo che sono analogie estreme: se un muratore inesperto costruisce un muro male, o se unə tesista mi contamina tutte le colture, è un guaio molto più grosso rispetto a un figlio o una figlia che stendono male i panni o non fanno bene la cucina. Però mi chiedo come cambierebbe il nostro approccio al lavoro domestico se lo pensassimo come un lavoro: non una cosa che si fa come capita, ma un compito che ha un inizio, una fine e una serie di accorgimenti e metodi precisi, con dietro delle ragioni sensate, per essere svolto bene. Cosa succederebbe se i genitori insegnassero ai figli il lavoro domestico in questo modo? Se li supervisionassero finché non fanno per bene, e ammettessero e correggessero gli errori con pazienza, come si fa con gli apprendisti? Come ce lo vivremmo il nostro lavoro domestico, se lo avessimo imparato così? Secondo me, a naso, molto meglio. È immensamente meglio fare una cosa a modo perché sai che ti aiuta a mantenere l'ordine e a minimizzare gli sforzi, rispetto al farla perché se no una mini-madre o un mini-padre nella tua testa iniziano a urlarti contro.

Spero di espandere questo ragionamento sul lavoro domestico in qualche post futuro, perché le linee di ragionamento che partono da questo pensiero che ho avuto oggi sono svariate. La principale che mi viene in mente è, sempre facendo un'analogia con il lavoro in laboratorio, che come nelle professioni, anche nel lavoro domestico si costituiscono dei ruoli. Qualcuno coordina, qualcuno esegue, chi esegue può essere più o meno partecipe dei motivi per cui deve fare una certa cosa in un certo modo. Quando si parla del carico mentale legato al lavoro domestico, si parla proprio di questo: chi coordina ha un ruolo più pesante, e in casa spesso chi prova a coordinare è anche l'unica persona che ha in mente lo stato in cui dovrebbe essere mantenuta la casa. Me lo lascio come auto-promemoria. Ci penserò su.