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domenica 15 aprile 2012

"Tu sei chi scegli e cerchi di essere".

Ieri sera alla tv c'era Il gigante di ferro. Non potevo non guardarlo. Anche se iniziava alle 11 e finiva ben oltre mezzanotte. Anche se sulla carta è un film d'animazione per bambini. Anche se ho 15 anni e mezzo. Anche se l'avevo già visto almeno altre tre volte. Non so se avete presente qual è, ma credo che sia uno dei film d'animazione più profondi che esistano. L'avranno dato alla televisione almeno 3 o 4 volte, credo.
Hogarth e il gigante, i due protagonisti della storia.

Ero determinata a guardarlo tutto, da cima a fondo, tant'è che, pur di vedere il finale (sebbene comunque io sapessi come andava a finire), sono rimasta l'unica sveglia in tutta la casa, col volume basso basso e immersa nella mia contemplazione, il respiro serrato per non perdermi nemmeno una parola. Ne era passato di tempo, da quando l'avevo visto l'ultima volta, ed ero in condizione tale da non capire del tutto, forse nemmeno ora ho capito del tutto, ma mi ha dato incredibilmente da pensare. Appena mia madre e i miei fratelli sono andati a dormire, e io sono rimasta sola davanti allo schermo, ho iniziato a piangere spudoratamente. Questo per diversi motivi: intanto, come potete leggere nei miei post più recenti, avevo addosso uno stress particolare che mi portava seriamente ad aver bisogno e persino voglia di piangere; poi, tutti i film in cui si fa un'analisi psicologica dei personaggi mi fanno un po' questo effetto, in qualche modo è come se nel corso del film mi affezionassi; e in particolare, mi faceva tenerezza l'analisi psicologica del gigante, che arriva a cambiare la sua natura di arma, ad avere un'anima, a dimostrarsi, nel corso della storia, il più umano di tutti.
Non è una semplice storia di robot futuristici, e va molto oltre lo status di cartone per bambini. Infinitamente oltre. Penso che sia estremamente profondo, che possa essere guardato veramente a qualunque età, e ad ogni età corrisponde un livello di comprensione diverso. E sono poche le storie che hanno questa particolarità.
Parla della vita, della morte, dell'anima, parla della guerra e della sua inutilità, di quanto possano essere dannosi i pregiudizi, di quanto sia sbagliato accusare e attaccare ingiustamente qualcuno di innocente, in 83 minuti ti sbatte in faccia tutta la stupidità umana e il bene e il male e la paranoia e l'altruismo gratuito. Cose meravigliose e terribili, e sono tutte condensate in un solo mondo. Forse un bambino può anche comprendere tutto questo. Però guardarlo dopo aver preso coscienza dello sfondo storico (è ambientato nel 1957, in piena guerra fredda) è tutta un'altra cosa.
Parla delle armi. L'insensatezza della violenza. Perché fare del male? Perché tanto accanimento contro chi è diverso da noi, o infinitamente più grande, o infinitamente più piccolo? Perché c'è un senso di proprietà così forte da spingerci a ferire gli altri? Perché tutto ciò che c'è di bello è anche abbastanza fragile da essere distrutto con un solo colpo di fucile? Armi. Oggetti creati appositamente per ferire, senza nessun altro scopo. La materializzazione dell'odio. Armi giocattolo. Ho sentito da una mia prof che i bambini, quando giocano (tipo giocare a fare la mamma o fingere di cucinare), fanno semplicemente pratica per la realtà che affronteranno poi, come in una simulazione dove non possono farsi male. Armi giocattolo! Esercitarsi a distruggere. Forse sto esagerando, però se siete arrivati a leggere fin qui, fermatevi un attimo e pensateci su. E, se potete, lasciate un commento su cosa ne pensate.

Finito il film, ho spento la tv trattenendo i singhiozzi e domandandomi "perché tutto ciò?". Mi ha sconvolta. Mi ha quasi impartito delle lezioni di vita.

Ed è uno dei pochi cartoni per vedere i quali non mi vergogno di stare alzata fino a tardi.

venerdì 13 aprile 2012

Treno in corsa in un uggioso venerdì.

C'è qualcosa che non quadra. Ho 15 anni, tanti amici, un fidanzato, buoni voti, tre pasti al giorno, un tetto sulla testa, un'infinità di hobby, altrettanti impegni e ancora più pensieri. In teoria non avrei motivo di essere triste, ecco, questa è davvero l'unica cosa che mi manca. Però è così strano, è come se non mi sentissi a mio agio nella mia stessa vita. Un buco dentro, grande e profondo. Credevo che l'era del buco fosse da lungo tempo finita, e destinata a rimanere un ricordo d'inchiostro nella carta del mio vecchio diario. Invece la sensazione è quella, forse non è mai davvero passata, anche se ora tendo a pensarci come a un senso di inquietudine di fondo. Poi vabbè, dimenticavo che il venerdì, nel periodo intorno a settembre-ottobre, era il giorno della depressione cronica. Che razza di periodo... Non ho mai capito poi perché proprio di venerdì. Sempre e solo di venerdì. Boh, sarà che avevo dentro tutto lo stress accumulato durante la settimana e quindi al minimo pretesto scoppiavo.
Non so, un'altra cosa strana è che quando fisicamente mi stanco, mi sento sollevata. Non dico necessariamente distruggermi, anche solo fare una corsa a rotta di collo in mezzo alla strada, così per sfogo. Il mio corpo è felice di muoversi, ha voglia di muoversi. Che non sia dovuto al fatto che mi sento brutta quando mi guardo allo specchio, e quindi voglio profondamente bruciare calorie? Non so. So solo che fare movimento sicuramente non mi nuoce. Quindi, tanto meglio per me. Non riesco a stare ferma. Fosse per me, penso che passerei un'intera giornata a correre e saltare in giro, per il puro e semplice gusto di stancarmi come si deve. Perché effettivamente, credo che più ti stanchi, meglio riposi. Se non fai un tubo tutto il giorno, il tuo corpo non ha veramente bisogno di dormire.
E' veramente deprimente guardare il cielo e vederlo così plumbeo. E' una sfumatura di grigio decisamente inquietante. Il colore che darei al nulla. Ed è anche incredibilmente piatto e uniforme, un'enorme macchia grigia che si estende su tutto il cielo... Logico, del resto. Il nulla non è vario.
Mi viene in mente che potrei tentare di soffiarle via, le nuvole. Come quella volta, in cui per forza di disperazione, nello strenuo tentativo di mandare via quei nuvoloni che minacciavano pioggia proprio quando dovevo uscire, saltai su con quest'idea stupida. Eppure per me ha più senso una teoria strampalata del genere che tante altre cose appartenenti al mondo reale. Com'era quella storia, che se una farfalla sbatte le ali in un dato punto, dalla parte opposta del mondo si può potenzialmente sviluppare un uragano? Bah.
Intanto, il treno è arrivato. Avanti, dunque, con quest'uggia mi toccherà avere uno scontro diretto.

giovedì 12 aprile 2012

Sorrow sank deep inside my blood.

Il dolore è affondato nel profondo del mio sangue. Ora, non so perché la mia testa vada a rigirare intorno alle parole più tristi della canzone più triste che io conosca. Avrei sperato di non ascoltarla più per tanto, tanto, tantissimo tempo. E invece non ho resistito, ed eccomi qui ad ascoltare I Won't See You Tonight part 1.

Ieri pioveva. Ha piovuto più o meno per tutto il giorno, a tratti. Ed era il giorno del rientro dalle vacanze di Pasqua, che sono state troppo corte. Oltretutto io, che sono molto intelligente, proprio l'unico giorno in cui faceva bel tempo ho deciso di non uscire. E non uscire anche solo per un giorno o due, durante le vacanze di Pasqua, equivale a bruciarsi un quarto del potenziale svago che si potrebbe avere. Senza poi contare che, il giorno prima di tornare a scuola, non ero riuscita a dormire bene, quindi ero estremamente stanca. E pioveva. Anche in circostanze normali, se il mio umore è abbastanza stabile, il clima non influenza più di tanto il mio stato d'animo. Eppure ieri, correndo sotto la pioggia per la salita infinita che va da casa a scuola, in perenne ritardo, la prima cosa a cui ho pensato è stata questa canzone. Ed era infinitamente deprimente la luce dei neon, profondamente artificiale, a rimpiazzare la luce che il sole, così coperto, non poteva dare. La prima sensazione che è sopraggiunta è stata malinconia, nient'altro che malinconia. Un senso di... come se in questo periodo io stessi andando avanti giusto per fare, senza dare un vero scopo alla mia vita o un vero senso alle mie azioni. O c'è qualcosa che manca, o c'è qualcosa di troppo, o forse entrambe, non saprei dire ora come ora.

La prima volta che ascoltai quella canzone, ecco, a dire il vero non ricordo quando fu, ma doveva essere grossomodo giugno scorso, lo stesso periodo in cui cominciai a scrivere sul blog. Col tempo l'ho imparata a memoria. Ogni movimento, ogni strofa, verso, parola, ogni rumore distorto, ogni nota di pianoforte, ogni pausa e ogni colpo di piatti. La musica è dannatamente bella, specialmente quando esprime tristezza. Dannata tristezza. E quella canzone era particolare nel suo genere, particolarmente e dannatamente triste, al punto che mi ha incantata. Mi ci immedesimavo completamente. Mi abbandonavo, e mi abbandono, alla malinconia. Sorrow. Non ho mai trovato un termine in italiano che renda bene il significato di questa parola. E' strano, a volte mi capita, ci sono termini in inglese che esprimono perfettamente un concetto, mentre invece il loro corrispondente in italiano lascia a desiderare. Dolore? Pena? Cruccio? Mi sembrano tutte, non saprei, quasi banali. Sorrow è molto di più, è dolore, ma un dolore psicologico. E' un senso di disagio, dispiacere, malinconia, inadeguatezza e sofferenza messi insieme. Non c'è una parola in italiano con cui io possa riassumere tutto questo. Ci passai l'estate, ascoltando quella canzone. Al mare. Di pomeriggio, quando la stanchezza era troppa per tornare in spiaggia, il caldo troppo opprimente per uscire, la noia e l'inerzia terribilmente accentuate. Un tempo morto. Le scelte erano dormire o stare in silenzio. Ero isolata da tutto e da tutti, lontana dal mio mondo e dalla mia realtà. Poi ci pensavo, e mi rendevo conto che la mia era una realtà di ragazzina sostanzialmente sfigata, quasi priva di vita sociale, sbeffeggiata dai compagni di classe e abbandonata persino dalla migliore amica. E scattava la depressione. La voglia di abbandonare il mio mondo, cambiare vita, lasciare anche quello che c'era di buono, per il solo gusto di liberarmi di quello che non mi andava. Pensieri viziati, che la musica in parte acquietava e in parte alimentava.

La fregatura, o forse la fortuna, è che la vita va avanti, e a volte migliora, persino. Quindi, anche se mi ricordo bene cosa si provava ad essere quello che ero fino a quest'estate, non mi ci riconosco più. Penso che a momenti non mi riconoscerei nemmeno nella me stessa di ieri. Ok, la vita è fatta di fasi, ma questa è una fase decisamente stocastica. Mi guardi ora e sono depressa... beh, ma neanche depressa, diciamo insofferente, ecco... E magari tra 10 ore sprizzerò gioia da tutti i pori, così, a random. Per poi tornare disinteressata al mondo dopo altre 4 ore.

Ecco, ci sono. Penso che sia forza di disperazione. Penso che il mio subconscio (che solitamente è sempre bastardo, ma in questi casi è portentoso), vedendomi deperire ogni giorno di più, sempre più svogliata, vuota e stranita, mi stia dando una specie di richiamo. Quell'inquietudine di fondo che mi accompagna in questi giorni, forse non è altro che una specie di sveglia interiore. Devo fare qualcosa, devo esprimermi, ho bisogno di stancarmi fisicamente.

Ultimamente è un'attività che trovo quasi piacevole, affaticarmi. Tipo che ogni volta che vado in piscina cerco di nuotare il più possibile, quando vado ai campi non faccio che correre e saltare in giro, e ora che ho ripescato da uno scatolone la mia vecchia corda per saltare non mi ferma più nessuno... tant'è che martedì, saltando la corda come una bambina delle elementari, ho fatto un sacco di movimento, quindi ho le gambe ancora distrutte. Da piccola ero allenatissima, arrivare a 100 salti di fila senza incepparsi era la prassi, e facevamo gare con le compagne di classe, durante l'intervallo, a chi riusciva a saltare di più. Questo implicava, in un giorno, arrivare anche a 500 salti. Un allenamento micidialmente salutare. Peccato che i ricordi di quei bei tempi lontani mi avessero lasciato un'illusione di onnipotenza. Sono bastati 200 salti a malapena per distruggermi. Non peso più 30 chili e non sono più abituata a passare il mio tempo a saltare, quindi le mie gambe non reggono. Fortuna che una decina di minuti al giorno per allenarmi un po' li troverò sempre. Sono già partite le sfide epiche tra amici, tipo come alle elementari. Mi sento molto una bambina. Ma sentirmi così mi dà anche un senso di allegrezza.
Credo che sarà la mia ancora di salvezza all'inerzia cronica.

Basta cazzeggiare ora. Domani è venerdì, poi ci sarà un lungo weekend. Animo, la settimana sta già finendo. Inesorabilmente veloce. E non so come rendere il tutto meno monotono, quindi comincerò con lo spegnere il  pc.

venerdì 6 aprile 2012

Competizione.

Oh, è qualcosa di così stupido! Profondamente stupido. Però non riesco a farne a meno. Sarò stupida anch'io? Non lo so. Non penso che riuscirò ad avere mai un'esistenza normale. La mia vita è illusione e ossessione. Illusione di essere migliore, ossessione che ci sia qualcuno di ancora migliore. E' qualcosa di orribile. Non voglio essere così, ma lo sono. Accettarmi? E' una mentalità estremamente infantile, non voglio. Cambiarmi? Ci ho provato. Da sola e con l'aiuto di altri, non si contano le volte in cui mi sono detta o sentita dire che non ha senso confrontarsi con gli altri, e non ha senso sentirsi migliori o peggiori.

Ma passa un po' di tempo e il risultato è sempre lo stesso, vedo qualcosa che non vorrei vedere, sento qualcosa che non vorrei sentire, leggo qualcosa che non vorrei leggere, e mi ritrovo a pensare, inesorabilmente, continuamente e stupidamente, che sono una nullità, anche se non è vero. E concludo, pensandoci ancora e ancora e ancora, che se la mia frustrazione nel sentirmi inferiore è così tanta, vuol dire per forza che prima mi sentivo in qualche modo superiore. E chi sono io per sentirmi superiore a qualcuno? Proprio nessuno!

E allora perché tutto ciò?

mercoledì 4 aprile 2012

Respiro.


Finalmente. Le vacanze di Pasqua sono ufficialmente iniziate. Non ne potevo più. Ieri, tornando dal conservatorio, mi sono attaccata stile ameba al pc. Intorno alle 10, mi sono resa conto che il giorno dopo (che sarebbe oggi) avrei avuto scuola. Che trauma terribile. Non so perché, ma mi ero probabilmente messa nell'ordine d'idee che il giorno dopo fosse festivo. Per quello è stato così triste andare a letto alle 10 e mezza di sera (cosa che, per me, ultimamente è abbastanza rara). Ho accumulato parecchio stress durante tutto marzo: prima la gita a Roma, poi quella a Novellara, dove tra l'altro ho recitato per la prima volta in uno spettacolo, poi masterclass e lezioni al conservatorio (tra l'altro, proprio ieri sono partita con due ore di anticipo per andare ad ascoltare la lezione di Michael Lewin. È stato troppo, troppo bello), verifiche varie a scuola, trecento rientri, una vita sociale da curare - una volta non avevo di questi problemi, ma sinceramente è meglio dover pensare a dedicare del tempo ai propri amici, che non avere amici a cui dedicare tempo - tante corse di qua e di là, pochissime occasioni per fare un giro in paese... Se avessi dovuto pensare di andare a scuola anche solo per un altro giorno, sarei andata in tilt. Più che altro perché per me, andare a scuola, cinque volte su sette è solo l'inizio della giornata, come dire, la parte facile. E questo è un periodo in cui, sarà perché ho accumulato più stress del solito, il pensiero di dover fare determinate cose mi crea un blocco mentale. Ora, non me ne voglia la mia prof di solfeggio, ma i maledetti parlati sono una di quelle cose. Li odio. Si tratta di leggere le note a voce, secondo ritmi precisi, sia in chiave di violino sia in chiave di basso - la cosa atroce è che è solo l'inizio: abbiamo ancora tipo cinque chiavi da studiare. Ora, sarò anche estremamente brillante nei cantati, nei dettati, nei ritmici e nella teoria, ma per eccellere nella lettura dovrei fare uno sforzo enorme (che puntualmente non faccio, ma dettagli). Insomma, è già tanto se provo a leggermeli alla spiccia in treno. Una volta mi ero presentata così impreparata che la prof mi aveva minacciato di chiedermi solo i parlati. Brrr, mi si accappona la pelle al solo pensiero. Meno male che almeno la vita va oltre una lezione di solfeggio. Solfeggio che, tra l'altro, non sarà un mio problema fino alla prossima settimana. Al momento sono troppo impegnata a godermi le vacanze di Pasqua, grazie.
Insomma, quest'anno voglio passare delle vacanze migliori dell'anno scorso. Anche l'anno scorso avevo passato vacanze migliori di due anni fa. Oddio, relativamente, poi. Mi ricordo che c'era stato il trasloco, in quel periodo. Che bei momenti, eravamo tutti esagitati, momentaneamente senza punti di riferimento, senza un luogo da chiamare sinceramente casa: quella vecchia era ormai spoglia e non ci era familiare più nulla se non il giallo chiaro delle pareti; quella nuova, pur essendo in parte arredata con i soliti mobili, era... Beh, era nuova. Era inusuale, scomoda, inospitale, persino. Cambiare casa è sempre estremamente sconvolgente. E noi eravamo tutti sconvolti - ricordo i miei litigare per ogni singola cosa, e ricordo che non trovavamo nulla, tutto in qualche modo era sparito, disperso in quel mare di scatoloni, spazi vuoti e buste blu. C'era tutto, ma non c'era niente. A ben pensarci, nel giro di un anno ho cambiato casa, camera, routine (solo in parte), modo di vestire (quel tanto che basta per rasentare la decenza) e vita sociale. Ci mancava solo che cambiassi nome. Ma sto divagando.
Per queste vacanze, la parola che riassume i miei progetti è una sola: balotta. Ora, dicesi balotta, in gergo bolognese/sfattone, una compagnia di persone che si divertono allegramente. Che io mi debba trovare in una compagnia di due, tre, quattro o dieci persone, poco importa: voglio uscire, divertirmi, non pensare più a niente, nei limiti del possibile. Passare quello che più si avvicina a una vacanza ideale. Anche se, pensandoci, la mia vacanza ideale sarebbe un periodo di stacco assoluto dal mondo. Da tutto e da tutti. Basterebbe poco, anche due o tre giorni, per dire. Senza vedere né sentire nessuno, senza parole, senza mass media che mi bombardano la coscienza, senza materie da studiare, senza dover rendere conto a nessuno. Che sogno di gloria... Ma dove voglio andare, io, a 15 anni? Mmm, spero che mia madre riesca a mandarmi in vacanza studio, quest'estate. Se riesco, per la seconda volta nella mia vita, ad andare all'estero, credo che inizierò a fare i salti di gioia. Insomma, non è stacco totale dal mondo, ma stacco totale dal mio mondo. È già qualcosa. Sarebbe stupendo. Il bello è che si discosta alquanto dall'idea di far balotta coi miei amici, che dovrebbe essere l'idea di fondo di questi giorni.
L'anno scorso avevamo avuto delle vacanze lunghissime, Pasqua cadeva proprio alla fine di aprile e quindi avevano fatto un megaponte che univa il periodo pasquale al primo maggio, per un totale di quasi due settimane di sospensione delle lezioni. E non avevo, all'epoca, tanta gente con cui uscire, ragion per cui o uscivo da sola e mi aggregavo (tanto di gente con cui far balotta alle giostre non ne mancava mai), o non uscivo e basta. Insomma, delle vacanze sprecate. Quest'anno saranno pochi giorni, ma ho intenzione di uscire più o meno sempre. Un paio di giorni per i miei migliori amici, un giorno a testa per un altro paio di amici estremamente importanti, e un giorno per il mio ragazzo. Che ultimamente è parecchio geloso. Dunque, da settembre avevo iniziato a parlare nei miei post di questa sorta di gelosia paranoica, che ora ho superato. Era una situazione troppo insensata, per di più mi accanivo contro una sola persona (o meglio, il mio subconscio si ostinava a imputare le mie sofferenze solo a quella persona, e dentro stavo profondamente male, mentre in realtà nessuno avrebbe mai sospettato niente, se io non avessi parlato), perché la trovavo particolarmente carina e pensavo mi disprezzasse. Non so come ho fatto ad uscirne, so solo che sono stati, da quel punto di vista, una decina di mesi totalmente infernali, anche perché mi dispiaceva di provare dei sentimenti così distruttivi verso persone che non mi avrebbero mai fatto niente di male. In più, credevo di soffrire come una scema mentre lui rimaneva impassibile nonostante io avessi amici anche maschi, che abbracciavo e tuttora abbraccio, o con cui comunque mi sento molto spesso. In realtà lui è sempre stato geloso, ma era troppo orgoglioso per parlarne con me. Ora questa gelosia sta saltando fuori in maniera abbastanza lampante, non faccio in tempo ad abbracciare un amico che lui gli lancia uno sguardo tipo inceneritore. Ora, non vorrei dire quello che sto per dire, ma la cosa mi piace. Primo, perché finalmente lo vedo soffrire dopo aver visto me stessa autolesionarmi mentalmente per mesi, mesi e mesi, in poche parole, sento che quella gelosia magari non era nemmeno tanto insensata, era un sentimento ed era lecito, in quanto sono comunque un essere umano. Secondo, perché comunque è, in qualche modo, piacevole appartenere a qualcuno. È un punto di riferimento fantastico. Gratificante. Stamattina la scena è stata epica. Mi ha praticamente fatto una scenata di gelosia in faccia. Però io i miei amici li saluto con un abbraccio, che gli piaccia o no. Che non pensi che io cambi le mie abitudini per lui, dato che lui non l'ha fatto per me (infatti quelle sono testuali parole sue. Tipo "non pensare che io cambi le mie abitudini perché tu sei gelosa, le mie amiche le tratto così"). Sì, c'è ancora una parte di me che per quei mesi di pensieri acidi grida vendetta. La gelosia è passata, lui è fatto così, lo accetto, pace. Però ad ogni occasione, anche volontariamente, provo a farlo ingelosire. Probabilmente non ho nemmeno una vaga idea di quanto male lui ci stia, probabilmente sono un mostro e basta - dentro, credo di esserlo. C'è più meschinità in me che... Non lo so. Mi sento profondamente meschina, quando inizio a pensare in questo modo.
Mah, ora basta ciarlare. Domani è un altro giorno (probabilmente sarà piovoso, ed è un peccato, perché avevo voglia di uscire). Magari a lui non permetterò di cambiare le mie abitudini. Ma a me stessa posso concederlo.