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domenica 15 aprile 2012

"Tu sei chi scegli e cerchi di essere".

Ieri sera alla tv c'era Il gigante di ferro. Non potevo non guardarlo. Anche se iniziava alle 11 e finiva ben oltre mezzanotte. Anche se sulla carta è un film d'animazione per bambini. Anche se ho 15 anni e mezzo. Anche se l'avevo già visto almeno altre tre volte. Non so se avete presente qual è, ma credo che sia uno dei film d'animazione più profondi che esistano. L'avranno dato alla televisione almeno 3 o 4 volte, credo.
Hogarth e il gigante, i due protagonisti della storia.

Ero determinata a guardarlo tutto, da cima a fondo, tant'è che, pur di vedere il finale (sebbene comunque io sapessi come andava a finire), sono rimasta l'unica sveglia in tutta la casa, col volume basso basso e immersa nella mia contemplazione, il respiro serrato per non perdermi nemmeno una parola. Ne era passato di tempo, da quando l'avevo visto l'ultima volta, ed ero in condizione tale da non capire del tutto, forse nemmeno ora ho capito del tutto, ma mi ha dato incredibilmente da pensare. Appena mia madre e i miei fratelli sono andati a dormire, e io sono rimasta sola davanti allo schermo, ho iniziato a piangere spudoratamente. Questo per diversi motivi: intanto, come potete leggere nei miei post più recenti, avevo addosso uno stress particolare che mi portava seriamente ad aver bisogno e persino voglia di piangere; poi, tutti i film in cui si fa un'analisi psicologica dei personaggi mi fanno un po' questo effetto, in qualche modo è come se nel corso del film mi affezionassi; e in particolare, mi faceva tenerezza l'analisi psicologica del gigante, che arriva a cambiare la sua natura di arma, ad avere un'anima, a dimostrarsi, nel corso della storia, il più umano di tutti.
Non è una semplice storia di robot futuristici, e va molto oltre lo status di cartone per bambini. Infinitamente oltre. Penso che sia estremamente profondo, che possa essere guardato veramente a qualunque età, e ad ogni età corrisponde un livello di comprensione diverso. E sono poche le storie che hanno questa particolarità.
Parla della vita, della morte, dell'anima, parla della guerra e della sua inutilità, di quanto possano essere dannosi i pregiudizi, di quanto sia sbagliato accusare e attaccare ingiustamente qualcuno di innocente, in 83 minuti ti sbatte in faccia tutta la stupidità umana e il bene e il male e la paranoia e l'altruismo gratuito. Cose meravigliose e terribili, e sono tutte condensate in un solo mondo. Forse un bambino può anche comprendere tutto questo. Però guardarlo dopo aver preso coscienza dello sfondo storico (è ambientato nel 1957, in piena guerra fredda) è tutta un'altra cosa.
Parla delle armi. L'insensatezza della violenza. Perché fare del male? Perché tanto accanimento contro chi è diverso da noi, o infinitamente più grande, o infinitamente più piccolo? Perché c'è un senso di proprietà così forte da spingerci a ferire gli altri? Perché tutto ciò che c'è di bello è anche abbastanza fragile da essere distrutto con un solo colpo di fucile? Armi. Oggetti creati appositamente per ferire, senza nessun altro scopo. La materializzazione dell'odio. Armi giocattolo. Ho sentito da una mia prof che i bambini, quando giocano (tipo giocare a fare la mamma o fingere di cucinare), fanno semplicemente pratica per la realtà che affronteranno poi, come in una simulazione dove non possono farsi male. Armi giocattolo! Esercitarsi a distruggere. Forse sto esagerando, però se siete arrivati a leggere fin qui, fermatevi un attimo e pensateci su. E, se potete, lasciate un commento su cosa ne pensate.

Finito il film, ho spento la tv trattenendo i singhiozzi e domandandomi "perché tutto ciò?". Mi ha sconvolta. Mi ha quasi impartito delle lezioni di vita.

Ed è uno dei pochi cartoni per vedere i quali non mi vergogno di stare alzata fino a tardi.

venerdì 13 aprile 2012

Treno in corsa in un uggioso venerdì.

C'è qualcosa che non quadra. Ho 15 anni, tanti amici, un fidanzato, buoni voti, tre pasti al giorno, un tetto sulla testa, un'infinità di hobby, altrettanti impegni e ancora più pensieri. In teoria non avrei motivo di essere triste, ecco, questa è davvero l'unica cosa che mi manca. Però è così strano, è come se non mi sentissi a mio agio nella mia stessa vita. Un buco dentro, grande e profondo. Credevo che l'era del buco fosse da lungo tempo finita, e destinata a rimanere un ricordo d'inchiostro nella carta del mio vecchio diario. Invece la sensazione è quella, forse non è mai davvero passata, anche se ora tendo a pensarci come a un senso di inquietudine di fondo. Poi vabbè, dimenticavo che il venerdì, nel periodo intorno a settembre-ottobre, era il giorno della depressione cronica. Che razza di periodo... Non ho mai capito poi perché proprio di venerdì. Sempre e solo di venerdì. Boh, sarà che avevo dentro tutto lo stress accumulato durante la settimana e quindi al minimo pretesto scoppiavo.
Non so, un'altra cosa strana è che quando fisicamente mi stanco, mi sento sollevata. Non dico necessariamente distruggermi, anche solo fare una corsa a rotta di collo in mezzo alla strada, così per sfogo. Il mio corpo è felice di muoversi, ha voglia di muoversi. Che non sia dovuto al fatto che mi sento brutta quando mi guardo allo specchio, e quindi voglio profondamente bruciare calorie? Non so. So solo che fare movimento sicuramente non mi nuoce. Quindi, tanto meglio per me. Non riesco a stare ferma. Fosse per me, penso che passerei un'intera giornata a correre e saltare in giro, per il puro e semplice gusto di stancarmi come si deve. Perché effettivamente, credo che più ti stanchi, meglio riposi. Se non fai un tubo tutto il giorno, il tuo corpo non ha veramente bisogno di dormire.
E' veramente deprimente guardare il cielo e vederlo così plumbeo. E' una sfumatura di grigio decisamente inquietante. Il colore che darei al nulla. Ed è anche incredibilmente piatto e uniforme, un'enorme macchia grigia che si estende su tutto il cielo... Logico, del resto. Il nulla non è vario.
Mi viene in mente che potrei tentare di soffiarle via, le nuvole. Come quella volta, in cui per forza di disperazione, nello strenuo tentativo di mandare via quei nuvoloni che minacciavano pioggia proprio quando dovevo uscire, saltai su con quest'idea stupida. Eppure per me ha più senso una teoria strampalata del genere che tante altre cose appartenenti al mondo reale. Com'era quella storia, che se una farfalla sbatte le ali in un dato punto, dalla parte opposta del mondo si può potenzialmente sviluppare un uragano? Bah.
Intanto, il treno è arrivato. Avanti, dunque, con quest'uggia mi toccherà avere uno scontro diretto.

giovedì 12 aprile 2012

Sorrow sank deep inside my blood.

Il dolore è affondato nel profondo del mio sangue. Ora, non so perché la mia testa vada a rigirare intorno alle parole più tristi della canzone più triste che io conosca. Avrei sperato di non ascoltarla più per tanto, tanto, tantissimo tempo. E invece non ho resistito, ed eccomi qui ad ascoltare I Won't See You Tonight part 1.

Ieri pioveva. Ha piovuto più o meno per tutto il giorno, a tratti. Ed era il giorno del rientro dalle vacanze di Pasqua, che sono state troppo corte. Oltretutto io, che sono molto intelligente, proprio l'unico giorno in cui faceva bel tempo ho deciso di non uscire. E non uscire anche solo per un giorno o due, durante le vacanze di Pasqua, equivale a bruciarsi un quarto del potenziale svago che si potrebbe avere. Senza poi contare che, il giorno prima di tornare a scuola, non ero riuscita a dormire bene, quindi ero estremamente stanca. E pioveva. Anche in circostanze normali, se il mio umore è abbastanza stabile, il clima non influenza più di tanto il mio stato d'animo. Eppure ieri, correndo sotto la pioggia per la salita infinita che va da casa a scuola, in perenne ritardo, la prima cosa a cui ho pensato è stata questa canzone. Ed era infinitamente deprimente la luce dei neon, profondamente artificiale, a rimpiazzare la luce che il sole, così coperto, non poteva dare. La prima sensazione che è sopraggiunta è stata malinconia, nient'altro che malinconia. Un senso di... come se in questo periodo io stessi andando avanti giusto per fare, senza dare un vero scopo alla mia vita o un vero senso alle mie azioni. O c'è qualcosa che manca, o c'è qualcosa di troppo, o forse entrambe, non saprei dire ora come ora.

La prima volta che ascoltai quella canzone, ecco, a dire il vero non ricordo quando fu, ma doveva essere grossomodo giugno scorso, lo stesso periodo in cui cominciai a scrivere sul blog. Col tempo l'ho imparata a memoria. Ogni movimento, ogni strofa, verso, parola, ogni rumore distorto, ogni nota di pianoforte, ogni pausa e ogni colpo di piatti. La musica è dannatamente bella, specialmente quando esprime tristezza. Dannata tristezza. E quella canzone era particolare nel suo genere, particolarmente e dannatamente triste, al punto che mi ha incantata. Mi ci immedesimavo completamente. Mi abbandonavo, e mi abbandono, alla malinconia. Sorrow. Non ho mai trovato un termine in italiano che renda bene il significato di questa parola. E' strano, a volte mi capita, ci sono termini in inglese che esprimono perfettamente un concetto, mentre invece il loro corrispondente in italiano lascia a desiderare. Dolore? Pena? Cruccio? Mi sembrano tutte, non saprei, quasi banali. Sorrow è molto di più, è dolore, ma un dolore psicologico. E' un senso di disagio, dispiacere, malinconia, inadeguatezza e sofferenza messi insieme. Non c'è una parola in italiano con cui io possa riassumere tutto questo. Ci passai l'estate, ascoltando quella canzone. Al mare. Di pomeriggio, quando la stanchezza era troppa per tornare in spiaggia, il caldo troppo opprimente per uscire, la noia e l'inerzia terribilmente accentuate. Un tempo morto. Le scelte erano dormire o stare in silenzio. Ero isolata da tutto e da tutti, lontana dal mio mondo e dalla mia realtà. Poi ci pensavo, e mi rendevo conto che la mia era una realtà di ragazzina sostanzialmente sfigata, quasi priva di vita sociale, sbeffeggiata dai compagni di classe e abbandonata persino dalla migliore amica. E scattava la depressione. La voglia di abbandonare il mio mondo, cambiare vita, lasciare anche quello che c'era di buono, per il solo gusto di liberarmi di quello che non mi andava. Pensieri viziati, che la musica in parte acquietava e in parte alimentava.

La fregatura, o forse la fortuna, è che la vita va avanti, e a volte migliora, persino. Quindi, anche se mi ricordo bene cosa si provava ad essere quello che ero fino a quest'estate, non mi ci riconosco più. Penso che a momenti non mi riconoscerei nemmeno nella me stessa di ieri. Ok, la vita è fatta di fasi, ma questa è una fase decisamente stocastica. Mi guardi ora e sono depressa... beh, ma neanche depressa, diciamo insofferente, ecco... E magari tra 10 ore sprizzerò gioia da tutti i pori, così, a random. Per poi tornare disinteressata al mondo dopo altre 4 ore.

Ecco, ci sono. Penso che sia forza di disperazione. Penso che il mio subconscio (che solitamente è sempre bastardo, ma in questi casi è portentoso), vedendomi deperire ogni giorno di più, sempre più svogliata, vuota e stranita, mi stia dando una specie di richiamo. Quell'inquietudine di fondo che mi accompagna in questi giorni, forse non è altro che una specie di sveglia interiore. Devo fare qualcosa, devo esprimermi, ho bisogno di stancarmi fisicamente.

Ultimamente è un'attività che trovo quasi piacevole, affaticarmi. Tipo che ogni volta che vado in piscina cerco di nuotare il più possibile, quando vado ai campi non faccio che correre e saltare in giro, e ora che ho ripescato da uno scatolone la mia vecchia corda per saltare non mi ferma più nessuno... tant'è che martedì, saltando la corda come una bambina delle elementari, ho fatto un sacco di movimento, quindi ho le gambe ancora distrutte. Da piccola ero allenatissima, arrivare a 100 salti di fila senza incepparsi era la prassi, e facevamo gare con le compagne di classe, durante l'intervallo, a chi riusciva a saltare di più. Questo implicava, in un giorno, arrivare anche a 500 salti. Un allenamento micidialmente salutare. Peccato che i ricordi di quei bei tempi lontani mi avessero lasciato un'illusione di onnipotenza. Sono bastati 200 salti a malapena per distruggermi. Non peso più 30 chili e non sono più abituata a passare il mio tempo a saltare, quindi le mie gambe non reggono. Fortuna che una decina di minuti al giorno per allenarmi un po' li troverò sempre. Sono già partite le sfide epiche tra amici, tipo come alle elementari. Mi sento molto una bambina. Ma sentirmi così mi dà anche un senso di allegrezza.
Credo che sarà la mia ancora di salvezza all'inerzia cronica.

Basta cazzeggiare ora. Domani è venerdì, poi ci sarà un lungo weekend. Animo, la settimana sta già finendo. Inesorabilmente veloce. E non so come rendere il tutto meno monotono, quindi comincerò con lo spegnere il  pc.

venerdì 6 aprile 2012

Competizione.

Oh, è qualcosa di così stupido! Profondamente stupido. Però non riesco a farne a meno. Sarò stupida anch'io? Non lo so. Non penso che riuscirò ad avere mai un'esistenza normale. La mia vita è illusione e ossessione. Illusione di essere migliore, ossessione che ci sia qualcuno di ancora migliore. E' qualcosa di orribile. Non voglio essere così, ma lo sono. Accettarmi? E' una mentalità estremamente infantile, non voglio. Cambiarmi? Ci ho provato. Da sola e con l'aiuto di altri, non si contano le volte in cui mi sono detta o sentita dire che non ha senso confrontarsi con gli altri, e non ha senso sentirsi migliori o peggiori.

Ma passa un po' di tempo e il risultato è sempre lo stesso, vedo qualcosa che non vorrei vedere, sento qualcosa che non vorrei sentire, leggo qualcosa che non vorrei leggere, e mi ritrovo a pensare, inesorabilmente, continuamente e stupidamente, che sono una nullità, anche se non è vero. E concludo, pensandoci ancora e ancora e ancora, che se la mia frustrazione nel sentirmi inferiore è così tanta, vuol dire per forza che prima mi sentivo in qualche modo superiore. E chi sono io per sentirmi superiore a qualcuno? Proprio nessuno!

E allora perché tutto ciò?

mercoledì 4 aprile 2012

Respiro.


Finalmente. Le vacanze di Pasqua sono ufficialmente iniziate. Non ne potevo più. Ieri, tornando dal conservatorio, mi sono attaccata stile ameba al pc. Intorno alle 10, mi sono resa conto che il giorno dopo (che sarebbe oggi) avrei avuto scuola. Che trauma terribile. Non so perché, ma mi ero probabilmente messa nell'ordine d'idee che il giorno dopo fosse festivo. Per quello è stato così triste andare a letto alle 10 e mezza di sera (cosa che, per me, ultimamente è abbastanza rara). Ho accumulato parecchio stress durante tutto marzo: prima la gita a Roma, poi quella a Novellara, dove tra l'altro ho recitato per la prima volta in uno spettacolo, poi masterclass e lezioni al conservatorio (tra l'altro, proprio ieri sono partita con due ore di anticipo per andare ad ascoltare la lezione di Michael Lewin. È stato troppo, troppo bello), verifiche varie a scuola, trecento rientri, una vita sociale da curare - una volta non avevo di questi problemi, ma sinceramente è meglio dover pensare a dedicare del tempo ai propri amici, che non avere amici a cui dedicare tempo - tante corse di qua e di là, pochissime occasioni per fare un giro in paese... Se avessi dovuto pensare di andare a scuola anche solo per un altro giorno, sarei andata in tilt. Più che altro perché per me, andare a scuola, cinque volte su sette è solo l'inizio della giornata, come dire, la parte facile. E questo è un periodo in cui, sarà perché ho accumulato più stress del solito, il pensiero di dover fare determinate cose mi crea un blocco mentale. Ora, non me ne voglia la mia prof di solfeggio, ma i maledetti parlati sono una di quelle cose. Li odio. Si tratta di leggere le note a voce, secondo ritmi precisi, sia in chiave di violino sia in chiave di basso - la cosa atroce è che è solo l'inizio: abbiamo ancora tipo cinque chiavi da studiare. Ora, sarò anche estremamente brillante nei cantati, nei dettati, nei ritmici e nella teoria, ma per eccellere nella lettura dovrei fare uno sforzo enorme (che puntualmente non faccio, ma dettagli). Insomma, è già tanto se provo a leggermeli alla spiccia in treno. Una volta mi ero presentata così impreparata che la prof mi aveva minacciato di chiedermi solo i parlati. Brrr, mi si accappona la pelle al solo pensiero. Meno male che almeno la vita va oltre una lezione di solfeggio. Solfeggio che, tra l'altro, non sarà un mio problema fino alla prossima settimana. Al momento sono troppo impegnata a godermi le vacanze di Pasqua, grazie.
Insomma, quest'anno voglio passare delle vacanze migliori dell'anno scorso. Anche l'anno scorso avevo passato vacanze migliori di due anni fa. Oddio, relativamente, poi. Mi ricordo che c'era stato il trasloco, in quel periodo. Che bei momenti, eravamo tutti esagitati, momentaneamente senza punti di riferimento, senza un luogo da chiamare sinceramente casa: quella vecchia era ormai spoglia e non ci era familiare più nulla se non il giallo chiaro delle pareti; quella nuova, pur essendo in parte arredata con i soliti mobili, era... Beh, era nuova. Era inusuale, scomoda, inospitale, persino. Cambiare casa è sempre estremamente sconvolgente. E noi eravamo tutti sconvolti - ricordo i miei litigare per ogni singola cosa, e ricordo che non trovavamo nulla, tutto in qualche modo era sparito, disperso in quel mare di scatoloni, spazi vuoti e buste blu. C'era tutto, ma non c'era niente. A ben pensarci, nel giro di un anno ho cambiato casa, camera, routine (solo in parte), modo di vestire (quel tanto che basta per rasentare la decenza) e vita sociale. Ci mancava solo che cambiassi nome. Ma sto divagando.
Per queste vacanze, la parola che riassume i miei progetti è una sola: balotta. Ora, dicesi balotta, in gergo bolognese/sfattone, una compagnia di persone che si divertono allegramente. Che io mi debba trovare in una compagnia di due, tre, quattro o dieci persone, poco importa: voglio uscire, divertirmi, non pensare più a niente, nei limiti del possibile. Passare quello che più si avvicina a una vacanza ideale. Anche se, pensandoci, la mia vacanza ideale sarebbe un periodo di stacco assoluto dal mondo. Da tutto e da tutti. Basterebbe poco, anche due o tre giorni, per dire. Senza vedere né sentire nessuno, senza parole, senza mass media che mi bombardano la coscienza, senza materie da studiare, senza dover rendere conto a nessuno. Che sogno di gloria... Ma dove voglio andare, io, a 15 anni? Mmm, spero che mia madre riesca a mandarmi in vacanza studio, quest'estate. Se riesco, per la seconda volta nella mia vita, ad andare all'estero, credo che inizierò a fare i salti di gioia. Insomma, non è stacco totale dal mondo, ma stacco totale dal mio mondo. È già qualcosa. Sarebbe stupendo. Il bello è che si discosta alquanto dall'idea di far balotta coi miei amici, che dovrebbe essere l'idea di fondo di questi giorni.
L'anno scorso avevamo avuto delle vacanze lunghissime, Pasqua cadeva proprio alla fine di aprile e quindi avevano fatto un megaponte che univa il periodo pasquale al primo maggio, per un totale di quasi due settimane di sospensione delle lezioni. E non avevo, all'epoca, tanta gente con cui uscire, ragion per cui o uscivo da sola e mi aggregavo (tanto di gente con cui far balotta alle giostre non ne mancava mai), o non uscivo e basta. Insomma, delle vacanze sprecate. Quest'anno saranno pochi giorni, ma ho intenzione di uscire più o meno sempre. Un paio di giorni per i miei migliori amici, un giorno a testa per un altro paio di amici estremamente importanti, e un giorno per il mio ragazzo. Che ultimamente è parecchio geloso. Dunque, da settembre avevo iniziato a parlare nei miei post di questa sorta di gelosia paranoica, che ora ho superato. Era una situazione troppo insensata, per di più mi accanivo contro una sola persona (o meglio, il mio subconscio si ostinava a imputare le mie sofferenze solo a quella persona, e dentro stavo profondamente male, mentre in realtà nessuno avrebbe mai sospettato niente, se io non avessi parlato), perché la trovavo particolarmente carina e pensavo mi disprezzasse. Non so come ho fatto ad uscirne, so solo che sono stati, da quel punto di vista, una decina di mesi totalmente infernali, anche perché mi dispiaceva di provare dei sentimenti così distruttivi verso persone che non mi avrebbero mai fatto niente di male. In più, credevo di soffrire come una scema mentre lui rimaneva impassibile nonostante io avessi amici anche maschi, che abbracciavo e tuttora abbraccio, o con cui comunque mi sento molto spesso. In realtà lui è sempre stato geloso, ma era troppo orgoglioso per parlarne con me. Ora questa gelosia sta saltando fuori in maniera abbastanza lampante, non faccio in tempo ad abbracciare un amico che lui gli lancia uno sguardo tipo inceneritore. Ora, non vorrei dire quello che sto per dire, ma la cosa mi piace. Primo, perché finalmente lo vedo soffrire dopo aver visto me stessa autolesionarmi mentalmente per mesi, mesi e mesi, in poche parole, sento che quella gelosia magari non era nemmeno tanto insensata, era un sentimento ed era lecito, in quanto sono comunque un essere umano. Secondo, perché comunque è, in qualche modo, piacevole appartenere a qualcuno. È un punto di riferimento fantastico. Gratificante. Stamattina la scena è stata epica. Mi ha praticamente fatto una scenata di gelosia in faccia. Però io i miei amici li saluto con un abbraccio, che gli piaccia o no. Che non pensi che io cambi le mie abitudini per lui, dato che lui non l'ha fatto per me (infatti quelle sono testuali parole sue. Tipo "non pensare che io cambi le mie abitudini perché tu sei gelosa, le mie amiche le tratto così"). Sì, c'è ancora una parte di me che per quei mesi di pensieri acidi grida vendetta. La gelosia è passata, lui è fatto così, lo accetto, pace. Però ad ogni occasione, anche volontariamente, provo a farlo ingelosire. Probabilmente non ho nemmeno una vaga idea di quanto male lui ci stia, probabilmente sono un mostro e basta - dentro, credo di esserlo. C'è più meschinità in me che... Non lo so. Mi sento profondamente meschina, quando inizio a pensare in questo modo.
Mah, ora basta ciarlare. Domani è un altro giorno (probabilmente sarà piovoso, ed è un peccato, perché avevo voglia di uscire). Magari a lui non permetterò di cambiare le mie abitudini. Ma a me stessa posso concederlo.

giovedì 29 marzo 2012

10

Voto massimo,
elogio scolastico;
Nero su bianco,
perfezione burocratica.

Ti daranno del genio
perché
in vita tua ne hai visti tanti
E sarai l'odio di chi
così perfetto
non è stato mai.

Ma il genio e l'anima
vanno ben oltre
la doppia cifra.

sabato 24 marzo 2012

Tensione spezzata.


Stasera non voglio
per cena
finzione preconfezionata,
gusto orribile.
Sono già disgustata,
a vomitare
dolore dagli occhi,
ripiegata in me stessa,
mentre in testa
riecheggiano grida,
sussurri, riverberi.
E la voglia di
spezzare
infrangere
distruggere
tutto,
arginata da
un’anima debole
si riversa in me stessa,
tsunami costretto
in una vasca da bagno.
Briciole di silenzio cadono,
cenere,
su di me, dentro me,
un ammasso di atomi
non coesi e
non coerenti.

Giaccio, centellinata, nel disordine.

venerdì 23 marzo 2012

Cosa? Dove? Come? Quando?!

Oooookay. Mmmm, da dove cominciare?
Mi sto decisamente addormentando. Tra il raffreddore, le quantità di tempo inenarrabili spese al computer, il sonno arretrato (eppure sto cercando di dormire almeno 8 ore a notte, durante la settimana... bah, c'è qualcosa che non quadra) e l'aria primaverile che si fa sentire (ma perché, se è una stagione così piena di vita, si deve far sentire facendomi addormentare?!), posso dire di star dormendo in piedi da un paio di giorni.
Dopo aver speso le mie ultimamente sempre più solite quattro ore di fila al pc, mi è venuto in mente, giusto prima di spegnere, di controllare la posta elettronica. Tipo che mi attendevano una vagonata di notifiche da parte di Elisa di lacrime di carta e inchiostro, che non solo mi segue e continua costantemente a leggermi, ma si è persino presa la briga di guardare i post più vecchi (cosa di cui la ringrazio, dato che tuffarsi nel mio passato psicologico e tentare di capirci qualcosa è un'impresa che richiede non poco coraggio). Rispondendo commento per commento, ad un certo punto ho scorso la pagina del blog fino in fondo, e ho visto qualcosa tipo "visualizzazioni totali: 1006". Eeeeeh?! Fino a ieri mi mancavano 18 visualizzazioni per arrivare a 1000!!! Mi è preso più o meno un colpo e mi sono mentalmente interrogata su come ciò fosse possibile.
Intanto, grazie mille ad Elisa, senza la quale il mio blog sarebbe ancora un mero diario personale, letto regolarmente da pochi amici (alcuni dei quali ho già citato in passato) e la cui antica media di 100 visualizzazioni al mese era tenuta in piedi solo da me che spargevo il link in giro. Ora in qualche modo sono inserita nella blogosfera, anche se sono poco seguita. Per ora.

Il mio subconscio è sconvolto. Con marzo sono iniziate anche una serie di controversie psicologiche e, soprattutto, un periodo strano come pochi. Mi lascio totalmente andare alla pigrizia, tutto il giorno, tutti i giorni, non mollo un attimo il pc, anche se avrei di meglio da fare, anche se sono stanca e ho sonno (in realtà c'è un motivo a questo attaccarsi al computer stile piovra, ma mi sta lentamente conducendo al diventare un'ameba... e non va bene). E poi, puntualmente, me ne pento. Oppure mi ricordo improvvisamente di un impegno inadempiuto, di un compito non fatto o magari, di un concorso scolastico che scade il giorno dopo. Ma non è solo questo.
Emotivamente parlando, ogni tanto mi colgono momenti in cui mi sembra di star camminando su un filo, magari perché no, con una palla al piede che mi tira inesorabilmente verso il basso e raffiche di vento che mi spingono a cadere. Tutto molto metaforico. Che cosa atroce, sentirsi in bilico. Appesa al filo della forza d'abitudine, strenuamente e continuamente, senza la minima intenzione di lasciarlo andare, mentre la gravità quasi mi strappa via. Non è facile da spiegare.

In compenso, oggi non avevo da andare al conservatorio, quindi mi sono messa a cucinare una torta. Mi piace troppo preparare i dolci, mi libera da ogni pensiero. Più che altro perché è un lavoro che, se fatto da soli, implica il dover organizzarsi e portare avanti più cose contemporaneamente. Tipo: mentre il burro fonde, metto il forno a riscaldare, imburro gli stampi, aggiungo questo o quell'ingrediente, devo tener d'occhio il burro, che non vada in ebollizione, devo far veloce, prima che il forno arrivi a temperatura, dov'è finito l'olio di arachidi, mi serve il sale per montare gli albumi (cosa, il sale, che mi viene in mente sempre DOPO aver cominciato a sbattere gli albumi... questo comporta strane bizzarrie, come tentativi di aprire il barattolo del sale con una sola mano, mentre l'altra regge lo sbattitore in funzione. Non provateci a casa, è pericoloso T_T)... Non hai il tempo materiale di pensare ad altro. Il tuo problema principale passa improvvisamente da "mi sento terribilmente confusa" a "quanti millilitri di sciroppo alla menta mi servono?".
La cosa bella è che, per la prima volta nella mia vita, ho fatto un esperimento. Ora, dicesi esperimento un tentativo di dolce/abbinamento di sapori vari non ancora collaudato e che non segue una ricetta. Mi spiegherò meglio: ho la ricetta della torta alla menta e quella di una ciambella variegata alla vaniglia e al cioccolato. So fare la ciambella, ma non ho mai provato a cimentarmi con la torta alla menta. Tuttavia, decido improvvisamente, in base a ispirazioni celesti random, di provare a variegare l'impasto al cioccolato con un impasto alla menta. Non è stato troppo difficile, è bastato fare la proporzione per ricavare quanto sciroppo di menta mi serviva e diminuire un po' lo zucchero. Però è stato interessante e, oltretutto, dato che il mix era azzeccato, mi sento una specie di genio.
E la parte più divertente del cucinare, ovviamente, è prendere un cucchiaio e mangiare i rimasugli di impasto crudo che restano nella terrina, dopo aver infornato le torte. Mangerei CHILI di impasto di torta. Ho dei dubbi su quanto possa essere salutare, ma sono i piaceri segreti (rivelati potenzialmente al mondo intero da questo momento) dei pasticceri amatoriali :3 Seriamente, è troppo gratificante. Oltre al fatto che, in altre occasioni, cucinare torte mi ha salvata dal passare pomeriggi a piagnucolare sul letto.

Direi che posso anche finirla, per oggi. Buonanotte :3

giovedì 15 marzo 2012

Bang! (Riflessioni post gita)


Tre giorni in un battito di ciglia. Sono partita con una fibrillazione indicibile addosso, e senza neanche rendermene conto ero già tornata, con una moltitudine di posti nuovi nel cuore, un paio di souvenir in più nella valigia, tanta stanchezza piombatami addosso all'improvviso (e sfido io, a non esser stanchi dopo aver dormito 4 ore in 2 giorni), due o tre centinaia di foto che potrò riguardare nei momenti di depressione profonda, il subconscio totalmente sconvolto, le gambe e i piedi che mi gridano vendetta (beh, dopo aver camminato incessantemente per due giorni filati, certo non potevano essere indenni) e parecchio altro ancora.

Roma è magica, semplicemente magica. Mi aggiravo per la Basilica di San Pietro, nel Colosseo o davanti al Vittoriano con sguardo totalmente estasiato, colpita nel profondo da ogni singolo particolare e come sminuita dalla grandezza di tutto. Più guardavo più non sapevo dove guardare, sono posti che ti rimangono impressi nella memoria che tu lo voglia o meno. Statue alte tipo tre metri. Statue sopraelevate, poste ad un'altezza di decine di metri. Statue perfino sulle sommità di certi monumenti, qualcosa che detto così non sembra un granché, ma quando le ho viste mi sembravano una cosa estremamente suggestiva, insolita e impossibile. Poi, cioè, vogliamo parlare di Piazza di Spagna? O della fontana di Trevi? Posti che se ci vai di sera, c'è il caso che ti venga voglia di trascorrerci tutta la notte. C'è un'atmosfera incredibilmente romantica. Sarebbe stato bello avere il mio ragazzo lì. Poi parliamone, com'è cantare a squarciagola in compagnia della propria compagna di banco per le vie di Roma, gli auricolari coi Breaking Benjamin a palla, fregandosene degli altri ragazzi e dei passanti, "tanto quelli ti vedranno stasera e non ti vedranno mai più"? E' da fare, è da fare. Nessuno può immaginare quanto sia liberatorio (anche perché non è da tutti sperimentare una cosa del genere. Non è come avere TUTTA la comitiva di 50-60 persone che cantano in coro. Quando si è in due o tre che cantano liberamente per i fatti propri, imparare a non considerare le persone intorno che potrebbero decidere di ascoltarti e di non gradire l'insolito spettacolo dà un senso di potenza incredibile. Ti fa sentire tipo "io posso fare quello che mi pare").

E questa non è nemmeno la metà delle cose che ho visto e fatto. D'altronde, le cose che ho visto non sono nemmeno un decimo di quelle che vale la pena vedere o fare. E' stato breve ma intenso, fermo restando che tre giorni, per Roma, sono davvero troppo pochi.

La cosa bella delle gite è che scopri le cose più inaspettate sui tuoi compagni. Tipo: ragazzi apparentemente disinteressati alle ragazze o comunque persone da cui non ti aspetteresti mai un abbraccio, che diventano dolci e teneri come dei cuccioli, e se glielo chiedi magari ti prendono anche in braccio. E ce n'erano, potrei fare almeno quattro o cinque esempi. Oppure, scopri che sarebbe stato meglio opporsi quando si erano fatte le disposizioni per le camere d'albergo (per inciso, tra i motivi per cui il tempo passato a dormire è stato così poco, ci sono due delle mie compagne di stanza) (e pensare che una di loro due mi ha salvata dalla depressione, l'ultima sera), e che certa gente non conosce il concetto di rispetto per chi tenta di dormire. Se mi mettono di nuovo in camera con quelle due, mi metto in valigia un paio di coperchi di pentole, la mattina punto la sveglia alle cinque, mi alzo e inizio a fare un caos infernale. Vorrei ben sperare che non succeda, però. Ho stretto una specie di accordo con due compagne di classe. Chissà se se ne ricorderanno, magari si sono già scordate tutto. Anche i prof mostrano il loro lato oscuro, non avrei mai immaginato che i nostri accompagnatori fossero degli animali notturni con cui stare in giro la sera fino a tardi. Altra cosa che è venuta fuori: per quanto io possa deprimermi o sentirmi asociale, non sono l'unica a sentirsi fuori posto. Ne sono venuta a capo ieri in treno, tornando a casa, ma mi sentivo come se avessi scoperto l'acqua calda. Durante la gita ci sono state cose come il mio primo viaggio in metropolitana, la prima volta che vedevo un posto, il mio primo spuntino di mezzanotte, eventi del genere. Avrei voluto avere qualcuno a cui magari ero legata con cui condividere queste esperienze, invece molte volte ero sola, e il pensiero di fondo era "sarebbe una cosa molto carina che ai miei amici venisse la curiosità di sapere se magari, per qualche caso cosmico, sto male, ma il fatto che io sia ancora qui e nessuno si accorga che in mezzo alla strada sto quasi praticamente piangendo mi fa pensare che in fondo sono sempre sola e sempre lo sarò". Però non è per niente giusto assumere quest'ottica. Ieri ho pensato che potrei non essere l'unica a provare questa sensazione, com'è logico, del resto, perché tutti abbiamo dei sentimenti, quindi tutti possiamo occasionalmente sentirci eclissati dal resto del mondo. Una mia compagna di classe, due o tre volte, aveva detto di sentirsi asociale. Quanto sono stata stupida a non migliorarle la giornata. A tratti mi ero sentita esattamente come lei. Però ero sempre dietro a quei due o tre compagni e cercavo di sentirmi accettata da loro, di stare sempre con loro. Ma se loro avevano, giustamente, anche altre persone con cui far balotta, non era un torto che mi facevano. Insomma, mi sento una persona decisamente migliore perché ho scoperto che le mie botte di depressione derivano solo ed esclusivamente da pensieri troppo egocentrici. E' bastato correggere il mio punto di vista per liberarmi da un peso. Logicamente non finisce qui, di giornate tristi ce ne saranno sempre, ma almeno ho un modo in più per contrastare me stessa. Se ho bisogno di aiuto devo cercarlo io dagli altri, non viene da solo, non cade dal cielo per magia solo perché mentalmente lo sto invocando.

Nonostante tutto, è stata la più bella gita che io abbia mai fatto. Anche se sono riuscita ogni giorno a trovare il motivo per deprimermi. Anche se l'ultima notte, mentre tutti erano impegnati a trovare un modo per far balotta fino a tardi, sono riuscita a rimanere da sola nella stanza d'albergo e scoppiare in singhiozzi come una disperata (notare che poi alla fine tutti si sono addormentati come delle pere cotte prima delle tre, mentre io, che ero la più stanca morta di tutti, sono forse quella che è stata sveglia a far cazzate -con la compagna di stanza di cui sopra- più a lungo). Anche se mi sentivo brutta (mentre contemporaneamente, così da un giorno all'altro, erano tutti quanti a dirmi che ero stupenda. Perché? Quando uscivamo la sera, posso anche capirlo, dal momento che quando mi metto in tiro per bene sono anche carina. Ma anche durante il giorno? Nononono. C'è qualcosa che non quadra). Anche se dal secondo giorno in poi ero stanchissima e molto addormentata. Mi sono divertita come un'idiota, come una bimba che gioca, come una normale quindicenne in gita, oserei dire. Detto da me ha dell'incredibile.

E se il semplice fatto di aver trascorso tre giornate a Roma mi fa scrivere così tanto (se non è il mio post più lungo, ci va molto vicino), beh... vuol dire che è proprio un gran posto :3

domenica 11 marzo 2012

Partire, tensione, aspettative, va tutto a scatafascio, forse.

E già dal titolo potete immaginare che sarà un post molto random. Stocastico, oserei dire. Mai sentito parlare della musica stocastica? Io la trovo una cosa assurdamente magnifica. Più che altro è divertente la storia di come ne ho scoperto l'esistenza. In una conversazione con un mio amico, una volta, neanche troppo tempo fa, era saltata fuori questa parola (tra l'altro mi ricordo che era stata definita come un "termine idiota utilizzato per sembrare colti"). Ero solo riuscita a capire che stocastico era sinonimo di probabilistico, ma dato che non avevo un'idea chiara del significato, una domenica mattina in cui avrei avuto di meglio da fare (ma si sa, la curiosità è donna, e un termine così affascinante non poteva non essere indagato), ho preso il vocabolario e ho cercato il significato di questa benedetta parola. Così ho scoperto che stocastico, come probabilistico, significa dovuto al caso. Ma non solo. Leggendo la definizione sul vocabolario, mi sono accorta che veniva citata questa musica stocastica, di cui non avevo mai sentito parlare (eh già, non si finisce mai d'imparare), definita grossomodo come "musica del 900 basata sull'indipendenza dell'altezza e della durata dei suoni all'interno di una rigorosa struttura probabilistica". Così sono passata alla ricerca e all'ascolto di un brano stocastico, sempre aiutata dal mio amico. Beh, posso dire che è davvero un'esperienza. Piuttosto inquietante. Random. Dà da pensare, insomma, il fatto che la musica è qualcosa di così potente che, anche se combini i suoni in modo probabilistico, ottieni qualcosa di comunicativo.
È stocastico persino il mio umore. O meglio, è un fritto misto di trecento sensazioni in salsa di indecisione. Da una parte sono bloccata dall'impossibilità di aiutare un amico in difficoltà. Sul serio. Non so davvero cosa fare. Non capisco se il semplice stargli vicino lo aiuti, sento che non basta. Vedo gli altri prodigarsi per trovare mille e un rimedio, uno più efficace dell'altro, e io me ne sto qui imbambolata a scrivere. E dall'altra parte, c'è una partenza imminente. Domani. Gita scolastica, tre giorni due notti. Ora, non era già abbastanza il trovare i miei pensieri scissi in due campi praticamente opposti: il mio subconscio li fa anche entrare in conflitto tra loro, garantendomi pazzia istantanea. È vero, la gita non dipende da me, ma mi sembra ignobile partire in un periodo del genere, in una situazione del genere. Non potevo sapere cosa sarebbe successo, quando ho versato la caparra. Ma in qualche modo mi sento in colpa lo stesso, principalmente perché so che sarà fottutamente divertente. E io sono in una situazione tale che non voglio divertirmi. Divertirmi, poi. So già come andrà a finire: tutti faranno balotta, tranne me. Come al solito. Mi coinvolgeranno per il loro gusto personale, finché troveranno conveniente la mia compagnia. Poi sarò quasi sola. Sarei sola del tutto se non fosse per il sostegno morale dei miei amici (di uno in particolare - so che stai leggendo, quindi grazie). Ero sola del tutto nelle gite dell'anno scorso. Ma quest'anno non è l'anno scorso, sono cambiate mille e una cosa. Rispetto a due anni fa sono irriconoscibile. La cosa buffa è che io, stanca di essere continuamente circondata da persone a cui non interessava veramente la mia amicizia e conscia del fatto che praticamente non avevo una vita sociale, millantavo già, in un futuro non troppo lontano, di "passare alla Storia come Colei La Quale Ha Scalato Le Vette Della Società Senza Barare Né Montarsi La Testa". Stiamo parlando di maggio 2010. Che periodo, scrivevo parecchie iniziali a lettere maiuscole. Così, per scelta stilistica. Era una cosa molto idiota. Quel che non avrei mai detto è che in capo a due anni avrei trovato davvero persone che mi apprezzavano per quel che ero (so che è una cosa che ho scritto in almeno altri tremiladuecento post. So che mi sto ripetendo. Ma è così, davvero). Cambierei ancora tante cose di me, i sogni nel cassetto sono tanti, forse anche troppi, tant'è che quasi non riesco a stare dietro ai miei mille interessi. Credo di essere troppo pigra. Ho l'energia, il tempo e gli strumenti per fare qualunque cosa io voglia della mia vita, ma a volte mi lascio decisamente andare. Pomeriggi in cui non studio niente, serate passate al pc, weekend fatti da staticità assoluta (un po' volontaria, un po' imposta dai miei che non mi lasciano uscire più di tanto). Sono cose che a lungo andare mi demoralizzano: meno cose faccio meno cose voglio fare, e oltretutto più vado avanti nell'ostinarmi a non muovere un dito, più guardo i miei progetti andare a rotoli. È sempre difficile riprendere in mano la propria vita dopo periodi così (e io ne ho avuti parecchi, si può dire che ne stia passando uno proprio adesso).
Tre giorni e due notti di stacco totale da chiunque non concerna i miei compagni di classe e i prof accompagnatori. Ho fatto le valigie stamattina, e ci ho messo pochissimo tempo. Mi sembrava una cosa così surreale che non smettevo un attimo di leggere e rileggere l'inventario che avevo stilato, controllando se avevo scordato qualcosa. Quella sensazione di inquietudine di fondo non mi abbandona mai. Tanto sono quasi sicura che dimenticherò le pantofole, domani, in preda alla mia sbadataggine cronica mista a sonno comatoso. Due notti senza pantofole sono una brutta cosa. Relativamente.
Basta così, per oggi. Dato che è un post tanto lungo, potete divertirvi a leggerlo tutto nei tre giorni in cui sarò via e, volendo, anche a trovare tutte le contraddizioni disseminate nei miei discorsi sconclusionati... Perché ce ne sono, e anche tante.

venerdì 9 marzo 2012

Paradossi parossistici.

Del tipo: amare. E' un paradosso enorme. E non mi riferisco esclusivamente all'amore che c'è in una coppia, anzi... Insomma, un essere umano non può vivere normalmente se non instaura una relazione con qualcuno. Questo vale perfino per le prime società di ominidi. Figurati se non vale al giorno d'oggi. Il ventunesimo secolo... l'era delle comunicazioni... non avere relazioni di alcun tipo con nessuno è praticamente impossibile. Quello che ci frega è che siamo dotati di sentimenti. Se non lo fossimo, nulla potrebbe ferirci, e non avremmo bisogno di nessun aiuto esterno per risolvere i nostri problemi psicologici per il semplice motivo che non avremmo problemi psicologici. Ma i sentimenti ci rendono estremamente vulnerabili. E così andiamo alla ricerca di qualcuno che ci capisca, o perlomeno che ci possa aiutare, anche se magari non per sempre, almeno per un po'. Abbiamo bisogno di aprirci agli altri, non c'è scampo. E una volta che qualcuno ha la tua completa fiducia, allora sei in gioco, e la posta è altissima: agli amici col tempo si dona veramente un pezzo della propria anima, con cui loro possono fare quello che ritengono più giusto. Ti hanno in pugno, possono manipolarti, spezzarti il cuore. Se sono veri amici, però, ti rispettano. E non solo: ti donano, a loro volta, un pezzo della loro anima, del loro io più vero. E' così che due o più persone si ritrovano legate le une alle altre.
Ma la cosa più bella dell'amicizia, sotto certi punti di vista, è l'empatia. Insieme si ride, si scherza, si sta bene, si iniziano a pensare le stesse cose, i punti di vista si fondono. E' facile cercare un amico solo per potersi sfogare e intrattenere conversazioni piacevoli. Però bisogna essere pronti anche a soffrire, perché anche gli amici sono vulnerabili, anche loro potrebbero stare male, e non è affatto piacevole sapere che un amico sta soffrendo. Com'è che diceva quella frase, tutti vogliono avere un amico, nessuno si occupa d'essere un amico. Non mi ricordo chi l'ha detto, ma purtroppo molte volte è vero. Io non credo di essere così, e oltretutto, per come la vedo io, se hai un amico sei un amico. Altrimenti non hai un amico, hai uno psicologo abusivo. E sei anche una specie di parassita.
Alla fine il paradosso qual è, che ci cerchiamo degli amici per poter soffrire di meno e trovare il modo di tirare avanti, ma alla fine soffriamo lo stesso. Soffrire per amore di qualcuno sa molto di concetto alto e nobile, ma sembra quasi un controsenso. Anche se, del resto, a volte è l'unico modo per mostrare che stai dalla parte di qualcuno. Avete presente il sostegno morale? Certi pensano che sia la cosa più inutile del mondo. Invece, quando si trova il modo di esprimerlo a parole, non dico che si salvi una vita, ma comunque è un grande aiuto.
Insomma, ora è il momento di smetterla coi discorsi filosofici. Purtroppo il treno non aspetta, ma il conservatorio sì, quindi se non mi sbrigo sarò doppiamente nei guai ç_ç

mercoledì 7 marzo 2012

Toni di voce.

Mio padre mi ha sempre rimproverata di avere una voce troppo squillante. Di parlare troppo forte. Di essere una persona chiassosa. E di consguenza, per certi versi, sgradevole.
Anche ieri sera, in macchina, dopo un viaggio in treno in cui avevo parlato praticamente tutto il tempo con dei miei amici incontrati per caso, ha iniziato a sbraitare qualcosa come "devi abbassare il tono di voce, perché tu non parli, URLI!!!". Boh. Nell'arco delle ultime due ore, l'unica persona che avevo sentito urlare era lui mentre eravamo in macchina. Posso capire che la situazione sia diversa, il treno è un luogo pubblico, mentre la macchina è isolata.
In macchina, le peggiori bestemmie, lamentele, lacrime e urla isterighe rimangono imprigionate, non viste e non sentite, muovendosi di moto accelerato, e più urli, piangi e strepiti, più ti rimbalzano addosso, come nei peggiori incubi... ma ehi, sto divagando.
Non è verro che urlo. Parlavo a un tono di voce normale in un luogo pubblico. Per lui è tipo un sacrilegio. Beh, magari è vero che il mio concetto di "volume normale" è alto, ma forse non me ne rendo conto. Tsk.
Tuttavia, non penso sia un caso se al corso di teatro mi si dice di alzare la voce quando recito. Solo che non mi spiego il perché, e il mio subconscio impazzisce. Insomma, non ero io quella che parlava troppo forte? E che devo fare, poi? Da una parte c'è chi vorrebbe il mio silenzio istantaneo, dall'altra c'è necessità che io parli più forte. E quindi... parlare piano o parlare forte? Moderare il volume in base alle circostanze o parlare come mi riesce, in quel tono tanto squillante e fastidioso per mio padre quanto vacillante per quelli del teatro? La prima opzione mi converrebbe. Ma non ho molta voglia di parlare con un amico, magari incontrato per caso, su un treno in ritardo o preso al volo, e che non vedo da secoli, come se fossimo a un funerale. Proprio no.

martedì 6 marzo 2012

Pezzi di me.

Beh, oggi è martedì. E come tutti i martedì di questo follemente frenetico anno scolastico, ho dovuto affrontare, nell'ordine, scuola, corso di teatro e conservatorio. Inutile dire che a scuola sono arrivata in ritardo, insomma, sono uscita praticamente alle 8, alle 8 e 5 si inizia, e la megasalita che porta da casa mia a scuola, per non morire, bisogna farla in minimo sette-otto minuti. Poi che oggi avevo chimica, quindi, arrivata a scuola, sono andata giù giù giù di corsa nella mia classe a prendere il camice e poi su su su, rampa dopo rampa, fino al laboratorio di chimica... avete presente, nelle favole, la stanza più remota della torre più alta? Bene, l'auletta a fianco al laboratorio, dove abbiamo lezione di chimica, è paragonabile a quel genere di luoghi. Così remota che non si sente quasi neanche la campanella suonare... Brr, inquietante.
E la verifica di fisica alla quinta ora, che dire. Non era difficile, ma mi erano rimasti solo 15 minuti scarsi per finire la parte strutturata. Ma in qualche modo me la sono cavata. E poi di nuovo, via, di volata a casa (sfruttando il mio amico Marino che mi ha gentilmente offerto un passaggio... di quante cose devo ringraziarlo!!!), pranzo di corsa, prepararsi di corsissima, volare letteralmente a scuola per arrivare prima dell'inizio del corso di teatro. Beh, direi che quella è stata l'attività che mi ha procurato meno stress, a parte un attacco di gelosia (e la cosa che mi preoccupa è che la colpa NON E' del mio subconscio!!! la faccenda è molto seria T_T), il credito sul cellulare che sono riuscita di nuovo a finire, e la paranoia di dover prendere il treno e uscire da teatro con dell'anticipo. Alle 15.31 sono uscita. Ed ecco l'elemento bazzistico della mia frettolosa giornata: mi sono scapicollata dalla scuola al viale che passa per la stazione, correndo come una disperata, gradino dopo gradino, falcata dopo falcata, ed ero vicinissima alla stazione, per cui ho dato un'occhiata all'orologio. Ero a tipo trecento metri dalla stazione e mancavano sette minuti al treno. Ho deciso di prendermela comoda e i minuti da sette sono diventati tre. Così, sono corsa al bar a comprare i biglietti, ma davanti a me c'era la signora più flemmatica di questo mondo, che doveva fare la ricarica alla cassa. E così, tra dire il numero, digitarlo, fare lo scontrino, il tutto con una flemma indicibile, i minuti all'arrivo del treno diventavano due e poi uno e poi trenta secondi. Ho chiesto i biglietti e, contando i soldi per vedere se potevo comprare una ricarica, ecco che vedo con la coda dell'occhio il treno che arrivava. Mai successa una cosa del genere. Ho preso i biglietti in fretta e furia, con il mio portafoglio completamente aperto (tanto non c'erano soldi dentro), e sono corsa alle obliteratrici prima e al treno poi, seguita da un'ecatombe di biglietti e tessere varie che dovevo fermarmi ogni volta a raccogliere. Una volta in treno, facendo la ricognizione dei miei averi, mi sono ritrovata con le tasche laterali del portafoglio (tipo quelle dove si mettono le carte di credito, e cose del genere... io ci tenevo i biglietti usati accumulati in mesi di conservatorio, e altre bagagliate cartacee) stranamente vuote. Quando ho realizzato di aver perso tutti quei biglietti del treno e citypass usati, ci sono rimasta leggermente male. Sigh, è dallo scorso novembre che li conservo tutti. Novembre del 2010. Pensare che una dose considerevole di biglietti era rimasta a marcire sotto la snervante pioggerellina di mezza stagione, fuori dalla sala d'aspetto, sbalzata fuori dal mio portafoglio spalancato per colpa del principio d'inerzia, mi ha messo un po' di malinconia. Avevo il fiatone, ero sudata e mi era preso quasi un infarto, perché stavo veramente per perderlo, quel treno. E se perdevo quel treno, mi aspettavano un'altra vagonata di epiteti poco piacevoli (come quelli di cui parlavo nel post precedente). Per tranquillizzarmi, ho deciso di metter su un po' di buona musica. Ma per quanto provassi a rilassarmi guardando il paesaggio scorrermi a fianco, non ci riuscivo. Mi sentivo come se avessi dimenticato qualcosa, ma cosa? E allora ho pensato che forse è dovuto proprio al fatto dei biglietti. Perché perdendo un pezzetto del mio passato, tante strisce di carta timbrate ognuna in modo diverso, sembrerà banale, ma ho perso dei pezzi di me. Al ritorno da Bologna, passando per la stazione, ho intravisto delle macchie rettangolari luccicare, per terra, davanti alla sala d'aspetto. E ho pensato che sicuramente erano i miei amati biglietti. Ma non sono riuscita a controllare, erano tutti troppo di fretta, mia madre già in macchina e mio padre stanco. E quindi ora devo arrendermi all'idea di aver perso oggetti che segnavano i miei giorni in conservatorio, le lezioni saltate... Forse c'erano anche i biglietti per Casalecchio e quelli delle olimpiadi della matematica, in mezzo. Pazienza. Ora sono a marcire sotto la snervante pioggia di mezza stagione, e non ne resterà che irrecuperabile poltiglia. Tutto questo per una corsa pazza, per un salvataggio dell'ultimo minuto. Mi mette malinconia, ma dovrebe servirmi da lezione.
E detto questo, la smetto di tediarvi con le mie vicende vicendevolmente vicendevoli e vi auguro una buona notte.

giovedì 1 marzo 2012

"Cretina!" (dimenticanze).

cretino [fr. crétin 'cristiano', nel senso di 'povero cristiano, pover'uomo'] agg.; anche s.m. (f. -a)
1 Che (o Chi) è affetto da cretinismo.
2 (est.) Che (o Chi) manifesta o rivela stupidità: discorso c.; persona cretina; parole cretine; comportarsi da, come un c..

dimenticare [lat. tardo dementicāre, da demĕnticus 'dimentico']
A v. tr. (io dimentico, tu dimentichi)
1 Perdere la memoria delle cose, non ricordare più qualcuno o qualcosa
2 (est.) Trascurare, lasciare in abbandono
3 Considerare con indulgenza e cancellare dalla propria mente
4 Lasciare un oggetto in un luogo, per distrazione e simili
B v. intr. pron. (dimenticarsi)
Non ricordarsi; Tralasciare di fare qualcosa, di recarsi in un luogo e sim., per disattenzione, mancanza di memoria e sim.
[definizioni tratte dal vocabolario Zingarelli 1997]

In questi giorni dimentico troppe, ma veramente troppe cose. Dal chiudere gli scuri la sera, alla lezione di chitarra del giovedì, a come distinguere un si passivante da un si intransitivo pronominale. Potrei finire per dimenticare la testa sul cuscino, un giorno. O peggio dimenticare come mi chiamo. O dimenticare chi sono. E a questo proposito, lasciatemi citare Terry Pratchett, che in Sourcery dice: "Oh, yes. It's vital to remember who you really are. It's very important. It isn't a good idea to rely on other people or things to do it for you, you see. They always get it wrong." (tradotto alla buona, sarebbe a dire: "è d'importanza vitale ricordare chi sei veramente. Non è una buona idea contare su altre cose o persone perché lo facciano per te, vedi. Lo fanno sempre nel modo sbagliato." Più o meno) (scusate, ma DOVEVO citare zio Terry. Ci stava troppo una citazione del genere) (e dopo questa piacevole divagazione letteraria, continuiamo col mio astruso discorso). Insomma, sono terribilmente sbadata, completamente stesa e assolutamente sparaflashata da questo sole meraviglioso. Poi che oggi hanno finalmente riaperto le Streghe, la gelateria del paese, dopo una luuuunga chiusura invernale. Ho improvvisato un'uscita coi miei migliori amici e mi sono mangiata la bellezza di due coni gelato. I primi due gelati della stagione! Poi fuori si stava anche bene, non vedevo i miei amici da tanto e quindi si aveva di che parlare. E il promemoria mentale della lezione di chitarra delle sei meno un quarto è finito sepolto sotto un affettuoso torpore primaverile. Sono forti, i miei amici. Vorrei essere anch'io forte come loro, capace di tirarli su dalle loro insicurezze, dai loro sentimenti, da ciò che li distrugge. Il tempo passava e del "Torna presto" lanciatomi da mia madre sull'uscio di casa rimaneva solo un'eco lontana in un angolino della mia testa. E stavo proprio dicendo di dover andar via, quando mia madre stessa mi ha ricordato che dovevo essere a lezione di chitarra già da cinque minuti. La mia fortuna è che si tratta di lezioni abbastanza informali, dove in realtà anche se arrivi più tardi o rimani più a lungo dell'ora pattuita, non succede niente. Ed effettivamente, arrivo sempre in ritardo, perché spesso finisco per dimenticare dell'esistenza di queste lezioni. Dieci minuti dopo l'incazzatissimo promemoria della mamma, ero sudata, col fiatone, la chitarra in spalla, ed ero ufficialmente una cretina. Credo che il "CRETINA!"che è risuonato più volte in casa l'abbiano sentito fino in Australia, stavolta. Odio essere chiamata così. E con quel tono. Mezzo adirato e mezzo come a dire "vergognati, essere spregevole". Questo non perché io non sia una cretina. Certe volte faccio delle sparate che le parole che mi vengono in mente per definirmi sono ben peggiori. È il disprezzo con cui mi viene detto che mi fa deprimere. Anche perché è seguito da diverse ore di insofferenza profonda. Qualunque cosa mi venga detta dopo, è impregnata di disprezzo. Ma vaffanculo, per piacere. Se devo sentirmi in colpa perché sono un essere umano, preferisco quasi morire. Cazzo, sono un essere umano! Le cose può darsi che le dimentichi anche, no? Magari non sempre, ma non sono un automa o una macchina o un congegno programmato in ogni singola azione e destinato a vivere una perfetta vita meccanizzata. Non voglio essere così. Quando avrò io dei figli, me ne ricorderò. Spero proprio di ricordarmene. Perché è un comportamento così deleterio che cado in depressione ad ogni mio minimo sbaglio. E non voglio che i miei figli cadano in depressione al primo sbaglio, se mai ne avrò. Se non mi uccido prima per liberare il mondo da una persona così cretina. Tsk, basta pensarci adesso. Tanto è da ormai tre anni che sto progettando la mia fuga. Me ne andrò lontano, il più lontano possibile. Più lontano dell'Australia, così se mai gli verrà voglia di chiamarmi cretina non potrò neanche sentirlo, perché sarò intenta ad aver DIMENTICATO cosa si prova ad essere chiamata CRETINA! Sigh. Meglio che ora smetta, potrei andare avanti di questo passo tutta la notte (nonché iniziare seriamente a fare nomi, anche se il tutto era abbastanza esplicito).
Quindi, buonanotte.

lunedì 27 febbraio 2012

Confronto.


E' un po' di giorni che mi pongo questo quesito esistenziale, che è una cosa tremenda, cioè: ha senso confrontarsi con gli altri?

Ogni volta che ci penso, come sempre quando ci si pone una domanda alla leggera, le possibili risposte appaiono e scompaiono, pallide, e scappano via appena provi ad afferrarle e farne qualcosa di più concreto.
Confrontarsi con gli altri, uhm... Come al solito la chiave di ogni cosa è che tutto è relativo (e ti pareva ._.), sta di fatto che non riesco a fare a meno di notare che sono sempre inferiore a qualcuno sotto qualche aspetto. E, puntualmente, me ne lamento. Con me stessa, con gli altri, col pensiero, per iscritto. E poi appena succede il contrario, cioè quando mi confronto con qualcuno (che magari mi ossessiona per una qualunque caratteristica fisica o intellettuale) e scopro che ci sono uno, due, tre aspetti in cui credo di essere migliore, ecco che prende il via un grande gongolamento interiore, della serie "oh, quella ha bisogno di chili di fondotinta per coprirsi quei brufoli, mentre io no *w* ora mi sento una persona migliore". Insomma, più vado avanti a pensarci più penso di essere una persona decisamente ignobile. Cioè, andiamo, non posso pretendere di essere la migliore di tutti in tutto. E tutte queste paranoie solo perché ho la smania di guardare come sono io, guardare come sono gli altri, tirare le somme e trovare che non siamo tutti uguali a questo mondo. E interpreto il fatto che gli altri siano diversi da me come un'evidente prova che io sono peggiore (o, nei rarissimi momenti in cui il mio subconscio mi dà un po' di tregua facendo emergere la mia parte più egocentrica, migliore) degli altri. Insomma, non ha senso. Bah. Pensandoci bene giungo alla conclusione che, stando a quello che ho scritto, per accettarmi dovrei essere diversa da me stessa. È il pensiero più stupido che io sia mai riuscita a formulare, credo, perché sotto sotto credo che siamo sempre noi stessi, a prescindere. Se cambiamo, anche volontariamente, siamo dei nuovi noi, ma siamo sempre noi stessi. E anche se non capiamo più un cazzo di chi siamo (che è un po' la mia situazione ora), inconsapevolmente in qualche modo siamo sempre noi stessi. Non è che si smette improvvisamente di esistere quando si perde la propria identità. Cioè. Uhh... Avete capito qualcosa? (io no)
Quello che è strano è che non mi confronto mai con le persone a cui mi affeziono seriamente, o almeno, non ne traggo delle paranoie (per dire, sono consapevole del fatto che la mia migliore amica ha i capelli e il fisico che vorrei io, ma non mi sono mai depressa riguardo alla cosa, come invece è capitato che facessi per i capelli e il fisico di altre ragazze di cui ero invidiosa/gelosa) (stesso ragionamento vale per la vita sociale e diverse altre cose). Francamente non so perché succede questo. Oh beh, pensandoci, forse è perché in fondo non è necessario sentirsi migliore di chi ti accetta. Cioè, non ha senso. Se sai di essere accettato per come sei, che tu sia migliore o peggiore in questo o quel campo, smette d'importarti.

Diversi giorni fa il mio prof di fisica, vedendo che continuavo a specchiarmi nella porta a vetri della scuola e sul finestrino di una macchina parcheggiata lì vicino, se n'è uscito con qualcosa tipo "Smettila di essere così narcisista! Continui a specchiarti dappertutto". Ora, il mio cervello, già tartassato da quesiti esistenziali e paranoie varie, di fronte alla porta a vetri della realtà, così trasparente che non la vedi eppure così evidente quando ci vai a sbattere il viso, ha iniziato ad impazzire. Cioè, sono narcisista o no? Avevo pensato di chiedere a qualche amico cosa ne pensasse, ma formulando nella mia testa la domanda "secondo te se una persona si guarda sempre allo specchio vuol dire che è narcisista?", l'unica risposta possibile era "sì". Però non credo di essere narcisista. Oddio... Passo quantità industriali di tempo allo specchio. Appena mi trovo davanti uno specchio o una superficie riflettente ci do un'occhiata per vedere il mio riflesso. Ma non è per narcisismo. Solitamente il pensiero dei narcisisti è "oh ma guardami, sono bello, attraente, fascinoso e carismatico, e stimo il mio aspetto fisico con tutta la mia anima", mentre è di dominio pubblico il fatto che io NON mi sento assolutamente attraente, carismatica e via dicendo. Capita il giorno in cui magari, in un periodo di dieta + attività fisica/autostima che dirompe/buonumore particolare, mi vedo carina, ma non penso francamente di essere un granché, specialmente se comparata a tipo... TUTTE le mie compagne di classe. E non solo (oh, ecco che torna il discorso del confronto. Non uscirò mai da questa spirale di pensieri inconcludenti T_T). Però il punto è: se non mi specchio per narcisismo, PERCHÉ mi specchio? E mettiamo pure il caso che io fossi narcisista. Non voglio essere narcisista. Come faccio a smettere? Bah, forse è una questione di esser sicuri di sé, non lo so. Magari non sentendomi pienamente sicura di me tendo a verificare continuamente di non avere un aspetto mostruoso. Mi sembra molto assurda come ipotesi.

Per non rischiare di continuare per le prossime tre ere geologiche con queste congetture psicosomatiche, è bene che ora io smetta di scrivere. Uff, avere un subconscio folle è una cosa così difficile D:

venerdì 24 febbraio 2012

Risveglio.

In questi giorni c'è un sole fantastico. Sembra quasi primavera. È tutto così tiepido e luminoso. Quasi frizzante. Diresti che è primavera davvero, se non fosse per mucchietti di neve superstiti, e per il fatto che tutti gli alberi sono ancora spogli. Già mi iniziano a venire a noia i maglioni e i panni di lana, anche solo a pensarci, a quel sole. Fa strano tornare a casa da scuola avvolta in panni pesanti e nell'apatia più totale, con un clima del genere. Quando il tempo è così, in genere ho anche tanta voglia di fare. Divento frizzante anch'io. Dal profondo del mio torpore c'è qualcosa che si fa strada e viene a galla, come se sentissi che devo assolutamente fare qualcosa. Beh, fondamentalmente è un impulso a togliermi la giacca, dato che sotto un sole del genere sicuramente non ho freddo ^^
Però è strano, perché tecnicamente siamo ben lungi dalla primavera. Insomma, tutti sanno che appena inizia marzo spesso arriva un'altra nevicata di quelle pazzesche, e quindi, insomma, c'è da aspettare. Eppure è bello cominciare una giornata sotto una luce diversa da quella filtrata da una coltre di nuvole. Dà la carica, la voglia di muoversi. In una certa misura, ti scordi anche dei tuoi problemi, e parecchio volentieri, per giunta. Un'energia così dirompente che, se fossi capace, farei un salto mortale lì in mezzo alla strada, una piroetta al centro di una stanza, volerei, potendo. E' una delle poche cure veramente efficaci alle mie paranoie croniche. Improvvisare passi goffi sull'asfalto, coi tuoi amici che ti guardano, in mezzo a un tepore che la lana fa sembrare eccessivo. Il sole che picchia sulla testa mi fa sentire come se fossi sospesa in una dimensione parallela, tra un sogno e una scia di profumo, come quando in estate assapori l'aria con gli occhi semichiusi, in preda al caldo che ti dà alla testa.

Mi piace la primavera, nel giro di un mese o due tutto diventerà così verde e rigoglioso che sentirsi tristi o paranoici sarà un crimine. Quindi un ottimo periodo in vista per me +_+ (perché, perché sono così egocentrica? D:) (no, basta paranoie!)

lunedì 20 febbraio 2012

Due anni fa.


Era tutto cominciato così, con quel pazzo sogno, mio e del mio maestro di chitarra, di provare ad entrare in Conservatorio. E a dire il vero, era cominciato tutto molto prima. Aveva tutto avuto inizio un giorno, mi sembrano passate intere ere geologiche da allora, anche se magari nell'ottica di una qualunque persona sarebbe solo qualche anno, cinque o sei anni, ero in quinta elementare quando per la prima volta sentii dal vivo strimpellare una chitarra classica. Giorni relativamente felici, quelli di quinta elementare. Già sotto il profilo sociale iniziavo a delinearmi mezza sfigata, ma era qualcosa che dipendeva solo da me. Sotto certi punti di vista ero stupida, col senno di poi non avrei fatto determinate scelte, ma dopotutto non si nasce imparati, e del senno di poi son pieni i fossi, come si suol dire. E non dimentichiamo, ovviamente, che l'anno dopo avrei iniziato le medie, e la cosa mi faceva sentire alquanto grande. All'epoca avevo un concetto abbastanza relativo del sentirsi grandi, forse perché ero la più piccola della classe, per mese di nascita, o non so per quale astruso motivo, ma in qualunque contesto io fossi mi sentivo sempre piccola relativamente a qualcun altro. Insomma, già alle elementari il mio subconscio era folle. Vi lascio immaginare come sia adesso. Ma sto divagando. Le medie del mio paesucolo di montagna hanno la meravigliosa caratteristica di essere a indirizzo musicale. Vale a dire che ci sono dei professori che insegnano i ragazzi a suonare uno strumento oltre al flauto dolce di ordinaria amministrazione. E io, non so perché, ero profondamente affascinata dal pianoforte. Ero determinata a suonare il piano, a dispetto di ogni lato negativo o complicazione che potesse sorgere in seguito. Casa mia era piccolissima, lo spazio per un piano dove lo trovavi? Ma non mi importava, ero pienamente determinata. Finché una mattina ci piombò in classe questo professore di chitarra, un metro e mezzo di puro carisma ed espressione, e appena iniziò a suonare fu qualcosa di incredibile. Non ricordo esattamente la sensazione, o comunque non la so descrivere a parole in questo momento, l'unica cosa che ricordo è che qualche ora dopo ero pienamente decisa a suonare, per i successivi tre anni, la chitarra. Così, quel chitarrista diventò il mio professore, e mi fornì l'ancora di salvezza, forma d'espressione, arte e linguaggio a cui tengo di più: la musica. Non riuscirei a stare senza per un solo giorno. Se non avessi modo di ascoltarla, suonerei. Se non avessi modo di suonare, canterei. Canto sempre anche in condizioni normali, quindi posso affermare che canterei 25 ore su 24, in mancanza di altre risorse. Suonare era fantastico, qualcosa di nuovo e mai sperimentato. Ricordo che in prima media l'attaccamento che avevo nel mio strumento, in senso prettamente materiale, era parossistico (traduzione: tendevo ad abbracciare/baciare continuamente la mia prima chitarra, e non mi biasimo, penso che allora fosse la mia unica vera amica). Ma dopo la terza media, l'esame e le vacanze, poco meno di due anni fa, beh, non so cos'è successo. Penso che la mia voglia di suonare abbia complottato in segreto di costruirsi una bella villa sulla Luna, e vi si sia trasferita uscendo in punta di piedi. Probabilmente organizza grandi feste ogni sabato sera, insieme a tutte le altre voglie di suonare perdute. Un giorno la rapirò e me la riprenderò, ma per ora ne sono sprovvista. Da allora non so perché ho continuato a suonare. E ora che mia madre è uscita dalla mia camera, dopo una ramanzina lunga interi minuti, in cui mi ribadiva di nuovo tutti i sacrifici che avevamo fatto come famiglia, anche solo per farmici entrare, in quel benedetto Conservatorio, e dopo essere passata alle minacce, dato che è la terza sera di seguito che non suono, ho iniziato a farmi delle domande. Tipo. Perché ho continuato comunque ad andare avanti? Nonostante per un anno io non abbia quasi suonato? Nonostante la prima persona che non crede in me sono io? Perché ho scelto di arrancare ancora un anno? Perché ho deciso di iscrivermi, due anni fa? Perché ho scelto di suonare uno strumento, in quinta elementare? E probabilmente la risposta è: tutta colpa della musica, che continua a spingermi, tirarmi, mandarmi avanti. Mi manda avanti da un anno, mi porterà a duettare con un violoncellista, mi manderà all'esame di conferma, dentro fino in fondo o fuori per sempre, e ormai i giorni che mancano sono sempre di meno, e se passerò avrò di nuovo la facoltà di scegliere, il diritto di scegliere, l'onore di scegliere ma anche l'onere di scegliere. Mica una scelta facile. Si tratterebbe di dire, di nuovo, dentro fino in fondo, o fuori per sempre. I professori, al Conservatorio, potranno stabilire se accogliermi nella cerchia dei musicisti di professione, o sbattermi fuori a calci nel culo. Ma nel caso in cui io avessi la possibilità di diventare musicista, l'ultima parola spetterebbe sempre a me. Sì o no. Sembrerebbe così semplice, e invece, nella sostanza, andrei a decidere che fare nei prossimi otto, nove anni della mia vita. E l'altra cosa che mi spinge a non rinunciare, è quel fuori per sempre. Essere preclusi dal poter raggiungere qualcosa per il resto della propria vita, questo sì che mi sembra un dramma. Insomma, temo proprio che andrò avanti finché di me non ne avranno abbastanza. Oltretutto, anche avere una bellissima laurea in musica, non sarebbe male. Ma ora come ora non so nemmeno se arriverò all'anno prossimo.

Se avessi saputo che a dieci anni avevo praticamente in mano il mio destino, se avessi potuto vedere cosa sarebbe successo, cosa sarebbe cambiato nel dire un sì o un no, ora non so se sarei qui. Se potessi vedere ora come sarò tra 10 anni, forse tacerei. Ma come sarò tra 10 anni, fondamentalmente, lo sto decidendo anche adesso, alla luce del fatto che la vita è piena di sì e di no. Mia madre mi ha chiesto: "Hai intenzione di suonare, domani?". E io le ho risposto di sì. Non so ancora se l'ho fatto per poter andare al corso di teatro, o per intenzione sincera. Forse entrambe o forse nessuna delle due. Chi può dirlo. E quindi ora non mi resta che smettere di ciarlare, chiudere il pc, e vedere un po' dove mi porta la mia scelta.

domenica 19 febbraio 2012

Insonnia.

*scribble scribble scribble*, fa la mia matita correndo su un foglio a righe, alla luce pallida e stanca di una lampadina a neon accesa nel cuore della notte.
Ho voglia di scrivere, non so nemmeno cosa. C'è un che di inespresso in me, nel mio stato d'animo. C'è un'ombra nel petto che non mi fa dormire, il mio cuore in sommossa contro i miei pensieri, e i miei pensieri che vorticano gli uni sugli altri in un'accozzaglia di vapore, indistinguibili e ineffabili. E quel vociare indefinito, quella guerriglia di punti di vista che mi appartengono, echeggia e rimbalza in tutti gli angoli della mia anima poliedrica. E io non sento più niente.
Mi sento in combutta con me stessa, per distinguere un pensiero, accettare un mio modo di essere o di apparire, o anche solo carpire qualcosa di sensato in quel groviglio di pensieri.
Ricordo di dediche che, con tutta la buona volontà del mondo, recitavano "Non cambiare!". Perché? Come si fa? Che vuol dire? Credo significhi qualcosa come "buona parte del mondo ti accetta per come sei ora, quindi non fare la fatica di diventare qualcun altro". E' un messaggio molto positivo. Oppure molto ipocrita. Il problema è che la maggior parte del mio mondo sono io, sono le mie mille facce, la mia anima centellinata in cui ogni briciola ha un punto di vista. E nessuna di quelle gocce di me mi accetta del tutto. Quindi ho bisogno costantemente di cambiare. Stupido mondo incentrato su di me, il mio. Persona egocentrica che parla sempre di sé, che cerca ciò che è agli occhi degli altri, io. Non so cosa sono, chi sono, se troverò mai una risposta al mio quesito esistenziale. Non mi resta che raccogliere opinioni dal profondo di me stessa, ma ne viene fuori una massa confusa di pensieri contrastanti. Cerco di capire chi sono, allora, per gli altri, ma tra chi mi ama e chi mi detesta, non concludo comunque niente. Potrei anche segnare tutto quello che evinco su un foglio, per poi provare a tirare le somme, ma rimarrebbe tutto così, indicato, come un polinomio. Non puoi sommare a e b se non sai quanto valgono, non puoi ridurre una persona a un aggettivo o a una caratteristica, secondo la sua identità, perché tutto ciò che noi siamo è concettualmente astratto. Sentimenti, modi di essere, relazioni, opinioni. Non puoi riassumere una complessità simile in una parola, cosa che puoi invece fare con l'apparenza. Apparenza, pare che al mondo non conti altro. Purtroppo è una condizione che ci è imposta dal nostro subconscio, ed è più forte di noi, a volte. Io, stereotipata come ragazza sfigata, non ho la minima voglia di indagare oltre l'apparenza di una che magari a colpo d'occhio etichetto come fighetta sofisticata e moralmente inconsistente. Né magari lei ha la minima voglia di fare altrettanto con me. Ma questo è un altro paio di maniche.
E per l'ennesima volta, non ricordo più dove volevo arrivare. Ma almeno mi è venuto un po' di sonno.

sabato 18 febbraio 2012

Alone In Sorrow

Come avevo detto che avrei fatto 5345343 ere geologiche fa, eccomi a pubblicare il testo di quella famosa canzone depressa e tagliavene che avevo scritto, ai tempi della depressione cronica del venerdì. Beh, anche ieri, tra la cervicale, le cadute sui pattini, le prese in giro, le battute sagaci del prof di ginnastica e le compagne di classe che sprizzano felicità da tutti i pori e ti sbolognano il registro solo perché sei rappresentante di classe mentre invece saresti sull'orlo delle lacrime e della crisi di nervi, non ero certo messa bene. Ma basta parlarne, è un capitolo chiuso, potevo parlarne subito e non l'ho fatto, potevo piangere di nuovo a dirotto sola nella mia stanza, ma non l'ho fatto, e quindi va bene così. Ecco a voi il testo più depresso del mondo, ecco a voi quello che la mia anima canta quando sono sola e sperduta in un mare di pensieri scuri e fumosi.


Music of teardrops
Falling on nothing
Inside the crowd
I cry alone

No-one notices
Sadness on my face
If they noticed
They wouldn't care

It feels like I'm
Fading away
In a nightmare
Drowning into
Sorrow and pain
Dancing with my
Sick wicked fears
Losing my grip
On reality

I can't help being sad
About myself
I can't face my fears
I can't let them go

I want to change
The shapes I'm in
I'm trapped in my body
I'm trapped in my pain

They won't see my face
Wasting in sorrow
They will not stop my
Falling tears

Hatred surrounds me
I am defenseless
But what they care about
Is just themselves

It feels like I'm
Fading away
In a nightmare
Drowning into
Sorrow and pain
Dancing with my
Sick wicked fears
Losing my grip
On reality

They won't help me
From falling to pieces
My heart's laying shattered
They won't mend it, no

My soul's worn out
Alone in the dark
I'm tired and hopeless
But I can't get out

My life seemed perfect
I had found my place
My smile was shining, beaming

But rain started falling
Down from my eyes
Into my soul

Now I am nothing
Now I have no place
Now I have shadows
All over my face

Now I feel sorry
Paranoid, jealous
And I start crying
Without a reason

Can't you see
The pain that's
Flowing
Out of
Me?

It feels like I'm
Dying.

mercoledì 15 febbraio 2012

Warmness On The Soul.


Tepore nell'anima. Quanti ricordi, quante lezioni di vita che girano intorno a questa canzone.
Era l'anno scorso. Era San Valentino. Ed ero terribilmente ed inguaribilmente innamorata. Eravamo vicini, e c'era questa canzone. E mi ricordo che ero totalmente esagitata, perché ero ben consapevole che avrei potuto fare qualunque cosa, in quel momento. Una carezza, un bacio, un abbraccio, una qualche scena madre di questo tipo. Avrei potuto, ma non ho fatto niente, e prima riflettevo su questa cosa e mi è venuto in mente che probabilmente ho fatto bene così. Non ho fatto niente e in un primo momento mi sono sentita stupida. Ma tanto, pensavo amaramente come mio solito, chi voglio prendere in giro? Resterò sola e innamorata, e nessuno se ne accorgerà. Era un periodo abbastanza felice, quello, riuscivo a vedere il lato positivo di tutto nonostante di lati positivi ce ne fossero ben pochi, e in effetti in fondo quella punta di amarezza c'era sempre. Avevo avuto l'occasione più perfetta che mi potesse capitare nel giorno più adatto dell'anno, ma, ironia della sorte, ero in compagnia del ragazzo sbagliato!
E il giorno dopo (che per inciso è il 15 febbraio, proclamato da qualcuno festa dei single) sapete che è successo? Durante l'intervallo ho incontrato un ragazzo troppo simpatico, che avevo conosciuto cinque giorni prima, e con lui ho passato tutti quei quindici minuti a ridere, scherzare e chiacchierare passeggiando per il corridoio, sotto gli occhi di tutta la scuola (e in effetti tutti quanti ci davano già per fidanzati, prendendoci in giro). Mi sentivo strana, frizzante. Mi piaceva stare con lui, volevo stare con lui e me n'ero resa conto a partire da quel giorno. Sono passati 365 giorni e ora quel ragazzo è il mio ragazzo sul serio.
Uno in teoria penserebbe che il destino voglia vedere incrociate le strade di chi magari il giorno di San Valentino fa/dice/ascolta qualcosa di romantico; non due che si incontrano per pura serendipità in un corridoio di scuola superiore e iniziano a parlare del più e del meno, per di più il giorno della festa dei single.
Ma in realtà le cose romantiche e gli incontri importanti non si fanno solo a San Valentino. Hanno tecnicamente una probabilità su trecentosessantacinque, giusto? Una su 366 negli anni bisestili. Zero se applichi le leggi di Murphy, ma questa è un'altra storia, e si dovrà raccontare un'altra volta (non potevo non citare Michael Ende in una frase del genere). La cosa ancora più lampante e importante, però, è che effettivamente quando si è innamorati di qualcuno si interpreta ogni incontro come un'occasione, ogni sguardo come un segno d'interesse, ogni saluto come una possibilità in più di essere corrisposti, mentre magari dall'altra parte c'è solo amicizia. Penso che se avessi fatto qualcosa quel giorno ora avrei un amico in meno e probabilmente sarei single. Avrei oltrepassato un limite e poi non sarei riuscita a ripartire. Ma chi può dirlo con certezza?
Quindi, ieri ho trascorso il mio primo San Valentino da fidanzata. Non c'è stato tutto questo gran festeggiamento, alla fine, solo tre muffin al cioccolato, a forma di cuore tra l'altro. Una cosa parecchio carina. Però mi sono svegliata con quella canzone, con Warmness On The Soul. Credo il risveglio più bello che io abbia avuto ultimamente. Ed erano le sette meno venti di mattina, quindi teoricamente avrei dovuto essere in uno stato catatonico. Un anno dopo, stesse note, stessa intro col piano che ti toglie il fiato, stesse bellissime parole, stesse sensazioni, ma io sono cambiata radicalmente... Uno dei mille poteri della musica è questo.

domenica 12 febbraio 2012

Senso di incompletezza (interrogativi esistenziali).

Ma alla fine cos'è l'incompletezza?
Cioè, perché ci si sente incompleti? Perché mi sento incompleta in questo momento? È l'impressione che manchi qualcosa che non si conosce ancora e che migliorerebbe le cose, o la mancanza di qualcosa che si ha avuto ma non si può più avere? E se invece fosse un conflitto tra lati contrastanti di uno stesso carattere?  O un'accozzaglia di pensieri dietro alla quale in realtà non c'è niente, e quindi ci si sente vuoti?
E che devo fare perché passi, questo senso di vuoto che si espande, di nulla che avanza? C'è un modo perché passi? Se tento di esprimerlo, si accentua, e se tento di ignorarlo, si accentua comunque. O quantomeno rimane lì a dare noia, come quei rumori troppo squillanti e fastidiosi che si ripetono, tipo gli antifurti o le sirene o gli allarmi. Dopo un po' diventi indolente, ma c'è sempre un non so che di esasperato in te, una speranza che tutto finisca, che ci sia silenzio.
Cosa significa, se ci si sente incompleti? Cosa vuol dire? È un segnale? Un allarme? Magari che ne sai, è fame. Come quei languorini che ti vengono quando ti annoi e inizi ad avere voglia di mangiare schifezze. È così strano.
O forse è un rimorso per qualcosa di non detto o di non fatto. Esiste un modo di elaborare definitivamente i rimpianti verso il passato? Oppure rimangono sempre lì latenti, e sono la spiegazione alla voragine che mi sento dentro? No, dubito che sia così.
E allora, cosa? Cosa mi manca? Cosa non ho fatto, detto, vissuto? Devo assecondare i miei vizi per stare in pace con me stessa? Non credo. Delle due è il contrario. Di cosa ho bisogno di liberarmi?
Già. Liberarmi. Perché, tra l'altro, potrebbe darsi che non sia qualcosa che manca, ma qualcosa di troppo. Cosa? Perché?
Mi domando persino se sia giusto che io mi scervelli così, se questo mio pensare mi porterà a qualcosa di positivo, oppure se è semplicemente un tratto discendente nella cosinusoide della vita. Ok, questa della cosinusoide potevo risparmiarmela perché sa molto di tentativo impastrocchiato di frase filosofica. Però non ho resistito :3
Credo che aspetterò, tanto se pure ci penso non riesco a venire a capo di nulla. Vorrei essere una psicologa. Chissà se gli psicologi comprendono loro stessi, oltre che gli altri. Facile dare un consiglio e fornire un punto di vista esterno... Ma dare un consiglio a se stessi? Come?
Ci si dedica allo studio di ciò che è infinitamente grande o infinitamente piccolo, o anche a ciò che giace nel profondo dell'anima di qualcuno, nella sua logica e nei suoi pensieri. Ma alla fine penso che esplorare dentro ciò che giace nel profondo di sé, è quello a cui non si dedica nessuno. Siamo esseri incapaci di analizzare noi stessi. Perfettamente in grado di osservare, valutare e giudicare gli altri, ma quanto a noi stessi, non arriviamo più in là dell'immagine riflessa nello specchio.

Superficiali.

venerdì 10 febbraio 2012

Paranoie in-line.

Pattinare è una cosa fantastica! Ho male alle gambe, sono stata in assoluto la persona che è caduta più volte, ho riconfermato la mia reputazione di goffa personcina capace di cadere da ferma, ma se tutto ciò è in nome del pattinaggio va bene.
Cadevo a minuti alterni e puntualmente mi rialzavo. È rialzarsi che conta. Sempre. Mi distraevo e perdevo l'equilibrio, provavo a prendere velocità e perdevo l'equilibrio, provavo a essere meno rigida e perdevo l'equilibrio - perdevo l'equilibrio e cadevo - cadevo e mi rialzavo ridendoci sopra, e ogni volta andavo un po' meglio.
Ci rido sopra. Ho gli occhi lucidi ma devo ridere. Sorridere. Non mi dispiace la mia reputazione, me ne infischio della mia reputazione, io sono io e vado bene così, vado bene così, vado bene così...
Erano tre anni che volevo provare a pattinare, e le lezioni erano state fissate da un bel po', ma solo oggi ci sono riuscita. Rimane comunque che è stata un'esperienza. Insomma, posso dire in linea di massima di sentirmi una persona migliore. Il paradosso è che sono potenzialmente la peggior pattinatrice della classe, ma anche quella che probabilmente si è divertita di più. Non sono caduta per i primi dieci minuti, poi ho iniziato a perdere sempre più spesso l'equilibrio, e poi ho incominciato a cadere quasi tutte le volte in cui perdevo l'equilibrio. In pratica un processo inverso, dato che in teoria prima si cade, poi ci si prende la mano. No? Il male che ho alle gambe in teoria dovrebbe essere dovuto più alle cadute che alla fatica. In realtà le cadute non mi hanno fatto niente. La cosa che però mi dispiace è che questa prima pattinata è stata piuttosto fallimentare.
La mia caduta è stata seguita da un "Sììì!" corale. Come da copione. Non che la cosa mi dispiaccia. Non mi spiego, però,  perché a farmi venire le lacrime agli occhi sia stata la reazione del maestro di pattinaggio, piuttosto che quel boato irrisorio. Forse il motivo in realtà è molto semplice. Agli sbeffeggi sono abituata.  A essere difesa da qualcun altro, no.
Insomma, non dico che sia stata un'esperienza proprio drammatica, anzi, mi sono divertita parecchio e anche altri sono caduti (in più avevo "una spinta da manuale", o almeno così mi hanno detto. Almeno in qualcosa potevo essere presa ad esempio), ma non ero sciolta. Per non cadere dovevo stare col busto in avanti e le gambe flesse, e per non deconcentrarmi ero costretta a stare rigida. Facile dire "stai sciolta", quando appena provavo a rilassarmi, se c'era qualcosa di me che si scioglieva, era il mio equilibrio instabile. Oh, e anche la mia allegria imperturbabile, certo.
Fallimentare, fallimentare, fallimentare! Continuo a cadere. Che palle. Che mi aspettavo, non si impara a pattinare come professionisti dall'oggi al domani. Io specialmente, poi. Prestazioni fisiche nulle, equilibrio scarso, coordinazione ancora peggio. Ma chi voglio prendere in giro? Però ridono tutti e, beh, riderò anch'io. Non posso essere così arrendevole dopo aver festeggiato tanto per il fatto di poter pattinare. Se c'è qualcosa che non deve cadere, è la mia maschera. Non devono vedermi piangere e non piangerò.
Le cose che mi facevano desistere dal fare una scena madre scoppiando in lacrime e uscendo teatralmente dalla stanza erano due: intanto, dovevo dimostrare a una certa persona che mi considerava una sfigata, che magari sono ancora imbranata nel fare le cose, ma non piango più per questo; e poi, ogni volta che mi rialzavo ero un po' più forte e sapevo una cosa in più da non fare per non cadere. Insomma, il discorso è ingarbugliato, ma il concetto è quello.
"Oh, ma che bello è? Quest'estate andiamo ai campi e pattiniamo insieme!". Certo, certo. "Sì infatti dicevo anche prima con la Mary, è stato fantastico! Poi visto, io e te siamo più o meno allo stesso livello! Quindi magari tipo andiamo solo noi due a pattinare". Sogni di gloria e vita sociale infranti nel giro di cinque minuti. Tsk. Di che m'illudevo.
Ad ogni modo, la cosa certa è che comprerò i pattini e le protezioni, e andrò ad allenarmi tutti i weekend, appena sarà più caldo. Insegnerò a pattinare ai miei amici e ci andremo insieme. La pista ai campi sportivi c'è, e non la muove nessuno. Potrei anche dimagrire, se pattino spesso *-* Oh, e ovviamente, potrei andare a pattinare col mio ragazzo. La vedo molto romantica come cosa.
"Poi un giorno andiamo a pattinare insieme, e io sarò così bravo rispetto a te da farti rendere conto di quanto sei una schiappa!" "Ah ah ah!!! Ma tanto che tu sei il re degli sport era già assodato, quindi..." Quindi vaffanculo, ecco. Se stai con me solo per dimostrarmi che negli sport faccio schifo, grazie tante, ma l'avevo già capito da sola. E già da tempo, tra l'altro.

... Ok, scherzavo. In realtà è stata una mattinata con dei risvolti subconsci tremendi (ed è meglio che io non inizi a parlare della gente che non ti saluta, perché potrei fare dei nomi e insultare delle persone in pubblico, ma non voglio incappare in cavilli giuridici a quindici anni, grazie), ma non avevo voglia di farmi vedere incazzata, perché ero felice di aver pattinato, ero felice di vedere il mio ragazzo anche se faceva comunque l'idiota, ero felice che ancora nevicasse, e così fitto!, fuori era tutto così bianco, e così mi sono tenuta dentro la frustrazione fino a questo momento. Oh, io me lo sento che la mia incapacità negli sport mi condurrà al suicidio. Oppure alla morte per incidente durante una partita. Beh, non farò una bella fine, sicuramente. Ma l'interrogativo più grosso resta questo: vale la pena di fingere che sia tutto a posto per qualche ora, per poi vedersi tornare tutta la tristezza mandata giù a fatica in una maledetta nausea emotiva che non mi passerà per le prossime cinque ere geologiche?

L'ho già detto, io non mi capisco.

martedì 7 febbraio 2012

Controvento.


Così mi sembra di andare, alla deriva, sperduta. Non so se andare avanti, ma non voglio tornare indietro e non voglio fuggire via per una scorciatoia, così provo ad andare avanti comunque, lottare contro il vento, contro quello che non vedo e quello che non so, contro il futuro, contro chi la pensa diversamente da me, contro qualcosa che è più grande di me. Contro la tristezza che mi assale anche solo per una parola, un fatto, un gesto, un pensiero.

Che strano quando ogni singola parola o immagine sembra esistere solo per arrecarti un'offesa.

Tengo la testa occupata con i miei mille impegni, il mio sedativo il computer, informazioni su informazioni che riguardano chiunque fuorché me. Impegni, cose da fare, prove da superare, ostacoli da scavalcare, perché se li aggiri ti ricompaiono davanti - la vita non funziona così, non puoi rimandare, non puoi fermarti, superi le difficoltà o sei fuori, tiri avanti o sei fuori, ti rialzi o sei fuori, puoi solo andare avanti, non importa da che parte corra il vento, non importa se sei su una metaforica salita ghiacciata; avanti finché la vita ti pulsa dentro, e devi ringraziare di essere in gioco e basta. Leggo frasi idiote, guardo immagini stupide, parlo di cose futili, dico una barzelletta, anticipo una freddura, rido, diresti che è un'esistenza a suo modo tranquilla, e a volte invece vorrei fermarmi. Far cadere la maschera che metto quando voglio far credere che vada tutto bene. Quando sono sola, isolata, circondata da ossessioni, ossessioni in carne e ossa che chiacchierano amabilmente a proposito di ciò che fa uno sputo su una scala o una duna nel deserto. Quando i miei amici sono lontani chilometri e invece avrei bisogno di loro, ma non posso contattarli nemmeno. Quando a sapere veramente come sto e a tirarmi su il morale c'è solo me stessa, ma l'unica cosa che me stessa è in grado di fare, a volte, è piangere. La fregatura è che non sono in grado di diventare invisibile quando torna comodo a me. Né fermare il tempo finché torna comodo a me. Che poi, mi sono sempre chiesta se il tempo esista o meno, ma tutto è relativo e probabilmente anche il tempo lo è. Se non esiste, mi domando come poter fermarlo. O come poter andare avanti, o indietro.

Poi, è il mondo che a giorni alterni si coalizza contro di me, oppure sono io che inizio a vedere le cose in modo spaventosamente negativo? Sono gli altri che si dimenticano di me, o sono io che mi faccio piccola per passare inosservata? È colpa mia, che voglio passare per felice indossando la mia maschera di cera, o degli altri, che mi guardano e non mi vedono, che mi ascoltano e non mi sentono?

Spesso, mentre mi pongo questi interrogativi mistici e ripenso a situazioni in cui mi sono trovata, mi rendo spaventosamente conto che quella più egocentrica ero io. Che gli altri avevano problemi peggiori per le mani ed io ero lì a mormorare "voglio andare a casa, che palle", pensando "aiuto, sto morendo dentro", quando avrei potuto dialogare, aprirmi agli altri, lasciare che gli altri si aprissero a me. E in questo periodo mi si rimprovera sempre più spesso di star lì da sola a farmi i fatti miei mentre potrei aiutare. Volendo sono egoista verso me stessa, persino. In questo momento mi sto giocando più o meno il mio futuro, scrivendo frasi insensate da persona insensata mentre potrei star studiando qualcosa di importante - la musica, per esempio. Invece no, perdo il mio tempo passivamente, occupandomi solo di me, pensando solo a me, ma alla fine chi sono io per il mondo, cosa ho fatto per arrogarmi alcun merito, per avere ben più di un amico, per essere quello che sono? Perché non mi rialzo?

Continuo a pensare "aspetterò un altro po', poi inizierò a darmi da fare". Un'ora, due, un giorno, una settimana. Il tempo passa e io sono sempre io.

E più cerco di guardarmi dentro, più mi accorgo che non ci capisco più niente.