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sabato 29 ottobre 2016

Pendolo.

Quando si è pendolari è tutto più complicato.
Il rapporto con la città, tanto per cominciare.


Trattenersi per più dello stretto necessario comporta vincoli organizzativi e pianificazioni minuziose, ritmi assurdi e dispendio di energie.
Gli orari dei mezzi sono come pesanti catene che per tutto il tempo si finisce per portarcisi appresso, a cui ogni altra cosa è subordinata. Non rischiare di perdere l'ultimo treno, una questione deontologica.

Tutto ciò che prescinde dagli affari che si devono sbrigare – che si tratti di lavoro, studio o commissioni periodiche – ti accade sotto gli occhi e tutto intorno, ma non ti appartiene mai, non ti tange davvero... come se fosse lontano.
I problemi, gli eventi, le persone, le relazioni, le possibilità, si fanno inconsistenti e si distanziano dal sottile momento in cui si inizia a controllare l'orario per non rischiare di far tardi.

L'unica cosa a cui senti di appartenere, nella monotona vorticosa quadriglia giornaliera tra provincia e città, è il treno. Ambiente di transizione, che mastica via i binari e il tempo, fermata dopo fermata. Teatro di quotidiana disperazione e ordinaria rassegnazione. Qualche volta, complice o galeotto di incontri, o anche solo di sguardi tra individui curiosi.

Casa è inutile, privata di qualunque attrattiva, un dormitorio, salvo rari casi.

La città, una fucina di vita mondana brulicante e irraggiungibile, che si evolve alle tue spalle.

La routine, un susseguirsi di corse e tempi morti.

E nel mezzo, seduto nel vagone a rimuginare, sospeso a metà strada tra due realtà aliene, ci sei tu.

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